Ci sono voluti quattro giorni e cinque notti di Consiglio europeo per raggiungere l’accordo sul Recovery Fund definito da molti “storico”. Abbiamo chiesto ad alcuni professori dell’Università Cattolica un commento sull’intesa del 21 luglio che potrebbe segnare la storia dell’Unione europea. Lo speciale
Ci sono vincitori e vinti dopo il lungo Consiglio d’Europa che si è concluso a tarda notte? «Come si addice a un compromesso, potremmo dire che hanno vinto tutti». Secondo il professor Massimo Bordignon, docente di Scienza delle finanze alla facoltà di Economia, campus di Milano e membro dello European Fiscal Board, «Merkel e Macron hanno portato a casa questo fondo che per motivi politici e di immagine è rimasto di 750 miliardi, cioè quanto era stato stabilito dalla Commissione. L’Italia prende addirittura più soldi di quanto previsto, superando i 200 miliardi. Infine, i Paesi “frugali” hanno ottenuto qualcosa di quello che volevano: la quota dei trasferimenti nel fondo è stata ridotta a vantaggio dei prestiti; e lo sconto sui contributi da versare all’Unione europea, che si pensava scomparissero dopo la Brexit sono stati mantenuti per i piccoli Paesi, se non rafforzati. Infine, il premier olandese Rutte ha ottenuto che si introducesse un emergency break nel Recovery fund per permettere a un singolo Paese di intervenire se pensa che altri Stati stiano sprecando i soldi ricevuti dall’Europa, chiedendo di discuterne al Consiglio europeo».
Si tratta di una buona soluzione o di un compromesso al ribasso? «È comunque un risultato storico. Rimanda al dilemma di cos’è in definitiva l’Unione europea. Da una parte ci sono le istituzioni sovranazionali (la Commissione, il Parlamento europeo, ecc) e dall’altra i singoli Paesi che si esprimono nel Consiglio. È la prima volta che di fronte a un problema generale, si consente al bilancio europeo di indebitarsi, fornendo liquidità agli Stati. I 750 miliardi sono debito europeo, non dei singoli Stati. E la commissione propone che interessi e principale di questi debiti vengano pagati in futuro con nuove risorse proprie europee, non con contributi dei singoli Paesi. La prima sarà la tassa sulla plastica, già decisa, poi si propone l’introduzione di una Carbon tax sulle importazioni (per evitare che i produttori stranieri inquinanti siano avvantaggiati rispetto agli europei) e di una tassa sulla digital economy».
Che cosa significa tutto questo? «Significa che quello europeo diventa quasi un bilancio vero, come quello di un qualunque Stato, che viene finanziato da imposte. Se c’è un problema, il bilancio nazionale può anche indebitarsi per sostenere alcune politiche economiche. Questa possibilità era sempre stato negata al bilancio europeo: i Paesi ci mettevano i soldi e il bilancio doveva essere sempre in equilibrio e chi decideva dove spendere i soldi erano i singoli Stati. Adesso c’è un meccanismo che potenzialmente diventa davvero europeo, con un passaggio di tipo federale».
In che senso? «Tutto il dibattito sul Fondo è stato presentato come uno scontro tra Paesi, basato su stereotipi, gli Italiani spreconi contro gli olandesi evasori. Ovviamente questi pregiudizi hanno un fondo di realtà: se Rutte dice che non vuole dare i soldi all’Italia perché non siamo capaci di spenderli, ha qualche ragione, come dimostrato dallo spreco che abbiamo fatto dei fondi strutturali europei negli anni scorsi. Come noi abbiamo perfettamente ragione nel dire che i Paesi “frugali” sono in realtà dei paradisi fiscali. Questa rappresentazione del conflitto, che infiamma le opinioni pubbliche, nasconde però quello che è il vero problema di fondo. Perché i piccoli Paesi hanno resistito così tanto? Perché temono la transizione verso un sistema federale con un’Unione europea che diventa una struttura autonoma, capace di finanziarsi da sé per sostenere delle politiche e avere un bilancio proprio. Per Germania, Francia o Italia non è un problema troppo grosso, perché comunque sono Paesi grandi, mentre tutti i “frugali” messi insieme non raggiungono la metà della popolazione dell’Italia. Si possono fare tutti i bilanciamenti possibili, ma in una struttura federale, chi ha il 2% della popolazione totale dell’Unione, come l’Olanda, conta il 2%. Non così nel Consiglio europeo, dove si decide più o meno all’unanimità (il Lussemburgo conta quanto la Germania). Questo è il nocciolo della questione».
Possiamo dire che per la prima volta, una crisi epocale come quella del Covid, ha prodotto un risultato politico? «Il segnale positivo e storico è che l’Unione europea, di fronte a una crisi generale, invece di affidarsi solo alla Bce, sosterrà le economie europee, particolarmente quelle più colpite, con fondi ottenuti tramite l’emissione di titoli europei, probabilmente finanziati con tasse europee. È un passaggio storico. Detto questo, il compromesso finale è stato al ribasso rispetto a quanto proposto dalla Commissione».
A cosa si riferisce? «Oltre al Recovery Fund, nel Consiglio di ieri è stato approvato il bilancio europeo, quello tradizionale, per i prossimi sette anni. Lì per trovare un accordo complessivo sono state sgonfiate le parti più innovative: l’ambiente, l’economia digitale, per sostenere le politiche più tradizionali (l’agricoltura e la coesione nazionale, che occupano già il 70% del bilancio) e favorire soprattutto i Paesi dell’Est. Non si parla più nemmeno di legare i trasferimenti europei al rispetto dello stato di diritto».
Come giudica il risultato per l’Italia? «Ovviamente sarebbe stato meglio avere tutti finanziamenti a fondo perduto piuttosto che prestiti. Ma anche i 120 miliardi di prestiti sono molto agevolati: sono probabilmente a lungo periodo (30 anni) e dunque non dobbiamo andare a ricontrattarli sul mercato a breve e gli interessi che pagheremo sono molto più bassi di quelli che l’Italia dovrebbe pagare su prestiti di questa durata. Oltretutto si tratta di un debito nei confronti di un’istituzione internazionale: è molto più stabile di quello contrattato sul mercato e questo aumenta la sostenibilità del debito».
Una delle questioni di cui si dibatte da tempo è come non sprecare queste risorse che arriveranno… «Si tratta davvero di tanti soldi e da impegnare in un periodo di tempo abbastanza breve (70% entro il 2021-2022 e il resto nel 2023): sarebbe stato meglio un finanziamento di più lungo periodo, perché l’Italia ha bisogno di investimenti a lunga scadenza. Comunque stiamo parlando di una cifra enorme, pari a circa il 12% del Pil dell’Italia da spendere in pochi anni, tutti i progetti devono essere completati entro il 2026».
Ce la faremo? «Bisogna vedere se il Paese è in grado di presentare e eseguire progetti con questi tempi. Il problema è che abbiamo anche governi deboli, divisi e che durano poco. Dopo la sbornia populista degli anni scorsi, anche la qualità della classe politica è bassa. È dunque necessario cercare la massima condivisione tra le forze politiche e sociali sui progetti da finanziare. Non ci possiamo permettere che se cade un governo, si ricomincia tutto da capo. Io proporrei grandi obiettivi su cui nessuno può obiettare: rifacciamo tutte le scuole, sistemiamo tutti gli ospedali, portiamo la banda larga in ogni angolo dell’Italia, mettiamo in sicurezza il territorio, rifacciamo le strade, i ponti, i porti e così via. Dovremmo fare in modo che l’Italia nei prossimi cinque anni diventi un grande cantiere a cielo aperto. Sono obiettivi su cui si può creare entusiasmo anche nella popolazione e questo può permetterci di fare presto e bene. Pensiamo al ponte di Genova».
Il premier Conte si è affrettato a mettere le mani avanti sulla questione del Mes. Lei che ne pensa? «Il bilancio europeo è stato costruito fin dall’inizio per consentire una qualche redistribuzione tra Paesi (un Paese non riceve esattamente quanto paga). Infatti, come si diceva prima, è previsto che l’Italia riceva 200 miliardi o il 27% dell’intero Recovery Fund, mentre il nostro contributo al bilancio dell’Unione è circa del 13%. Invece, il Mes è un’istituzione intergovernativa, dove i Paesi euro si fanno prestiti l’uno all’altro, e se un Paese presta i soldi dei propri cittadini a qualcun altro vuole che tornino indietro. Nel Mes c’è, dunque, sempre una certa condizionalità. In questo caso, grazie anche all’impegno della Commissione, tutte le condizionalità sono state smontate, eccetto per il fatto che i soldi della linea di credito speciale del Mes devono essere spese per affrontate l’emergenza sanitaria; paradossalmente c’è meno condizionalità nei prestiti dal Mes che nelle risorse da chiedere al Recovery Fund. Per l’Italia, prendere dal Mes tutti i soldi possibili previsti (il 2% del Pil), ai tassi attuali significherebbe un risparmio di circa 500 milioni di interessi all’anno su 10 anni. Da un punto di vista economico non c’è nessuna ragione per non prenderli».
Ma c’è un però… «Siccome si è costruito un pregiudizio ideologico sull’uso del Mes e una parte della maggioranza del governo, il Movimento 5 Stelle, continua ad avere dei dubbi, non penso che abbia senso far cadere il governo per accedere al Mes. Pagheremo 500 milioni di euro in più di tasse all’anno e chi è contrario al Mes lo spiegherà ai propri elettori. Ma non ci possiamo permettere la fine della legislatura. Ci mancherebbe solo che nel momento in cui dobbiamo preparare i progetti per il Fondo e approvare la legge di bilancio ci mettiamo a far campagna elettorale e stiamo senza governo per i prossimi sei mesi».
Foto in alto: Copyright: European Union - Special European Council - July 2020 (Day 4)