di Claudia Mendicino *

Rievocando a distanza di qualche settimana i momenti centrali della mia esperienza in Uganda con il Charity Work Program, ci sono alcune immagini particolarmente nitide che si affacciano alla mente.

L'arrivo all'aeroporto di Entebbe, in un mondo che sin da subito si rivela essere profondamente diverso da quello a cui siamo abituati. I colori accesi, il paesaggio di un verde brillante e il contrasto con la terra rossa, i rumori, il fiume di persone a piedi che camminano ai lati della strada e i tantissimi bambini sorridenti che ci salutano segnano tutto il tragitto in taxi da Entebbe a Kampala. È il nostro primo frastornante impatto con l'Africa.

Arriviamo nel tardo pomeriggio presso il Benedict Medical Center, a Luzira, un sobborgo della capitale ugandese. Una megalopoli in cui coesistono l'una accanto all'altra estrema miseria e estrema ricchezza, in un equilibrio intricato che sembra essere l'archetipo di questo continente pieno di contraddizioni. Quello che colpisce subito è il calore della gente del posto, i sorrisi di benvenuto di infermieri, ostetriche e medici che si mostrano sinceramente contenti di averci lì, i saluti dei bambini per strada.

Ed è soprattutto per quelle strade di terra, senza marciapiedi, con i canali di scolo a cielo aperto, tra mercati, venditori di chapati, boda-boda e matatu, che si avverte la dirompente sensazione di trovarsi davvero in un paese “straniero”, straniero nel senso di estraneo e spesso profondamente diverso dal nostro modo “occidentale” di concepire la vita.

E lungo quelle strade, il cuore della vita di questa rumorosa città, noi “Muzungu” non passiamo di certo inosservati: mi accorgo che per molti qui la nostra pelle bianca è e rimane un fattore di distinzione, come un marchio che si porta dietro dei significati ben precisi, anche se spesso noi stessi ignoriamo quali siano.

Il Benedict Medical Center, presso cui alloggiamo, è una piccola struttura ospedaliera con 40 posti letto costruita nel 2009 dall’Emmaus Foundation, fondazione diretta da padre John Scalabrini. Father John, come lo chiamano tutti, vive in Uganda dal 1964 e ha vissuto in prima persona le drammatiche vicende della storia di questo Paese, essendo stato espulso per ben due volte dal sanguinario dittatore Amin Dada e poi dall’attuale presidente Museveni. Tra le sue molte attività a sostegno della popolazione locale, ha costruito diverse scuole e sostenuto negli studi centinaia di bambini.

La nostra giornata al Benedict inizia presto, con i canti dei ragazzi che abitano nella grande scuola della missione di padre John, che sorge proprio accanto all’ospedale. Prima del giro visite, un rito imprescindibile per il personale del luogo è la preghiera del mattino.
 
Tra i letti del Benedict, insieme al physician dr. Ocen, al medical officer dr. Kimpton, alla bravissima ginecologa dottoressa Betty, al chirurgo dr. Nelson Alema, a tutti gli infermieri e alla onnipresente Cecily (ostetrica e infermiera tuttofare), impariamo cosa significhi fare “medicina di frontiera”, senza tanti presidi tecnologici e con pochi farmaci. Dopo il giro visite, abbiamo la possibilità di andare in sala operatoria oppure in ambulatorio, che qui chiamano OPD-Out Patient Department.

Le nostre giornate si susseguono molto intensamente, eppure nello stesso tempo senza troppa fretta, perché come impariamo subito “No hurry in Africa”. La dimensione del tempo per gli africani è molto diversa dalla nostra: è subito evidente che per loro il tempo non ha lo stesso valore assoluto che assume per noi occidentali.

Per noi studentesse di Medicina del terzo anno, è una straordinaria occasione per vedere malattie da noi inesistenti o molto rare: Malaria, Tubercolosi, Schistosomiasi, piedi diabetici in stadi molto avanzati. Vediamo madri con Aids che allattano il loro bambino appena nato perché non hanno i soldi per comprare il latte artificiale, nonostante l’allattamento rappresenti una modalità di trasmissione del virus. Vediamo le condizioni drammatiche di tanti pazienti, il divario tra quello che si può fare con ciò che i medici locali hanno a disposizione e ciò che si sarebbe potuto fatto in Italia per pazienti in quelle stesse condizioni.

All’ospedale militare di Bombo, situato in un altro quartiere di Kampala, dove il dr. Ocen ha voluto insistentemente portarci, vedo una situazione ancora più drammatica: un numero impressionante di pazienti con Aids, tanti in stadio terminale, con conta dei CD4 bassissima e devastanti infezioni opportunistiche che in Occidente non si vedono più.

Ma ci sono anche tanti momenti belli e tantissimi bambini appena nati che vediamo ogni giorno durante il giro visite. Al Benedict abbiamo avuto la possibilità di assistere per la prima volta a un parto, un’esperienza che lascia una miriade di emozioni.

E, poi, non potrò dimenticare i paesaggi dell’Africa, l’Africa del Nord dell’Uganda, dilaniata fino a pochi anni fa da una sanguinosa guerra civile i cui orrori abbiamo avuto modo di conoscere da frammenti di storie raccontateci dai ragazzi di etnia Acholi (una delle tribù più colpite) nella missione di padre John.

Poter comprendere in tre settimane una realtà così complessa, piena di contraddizioni, contrasti e spunti di riflessione sarebbe un’impresa impossibile. Come quella di raccontare, rendendole giustizia, un’esperienza così intensa. Ma, vi assicuro, per me resterà indelebile.


* 21 anni, terzo anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma