di Claudia Tanzi *

Mariam finisce di chiudere a fatica la zip dell’ultima valigia nell’istante in cui la porta si apre con un tonfo sordo. In casa irrompono le grida emozionate di Adam e Jasline di ritorno dall’asilo, seguiti a ruota dal padre: oggi per la prima volta saliranno su un aereo, destinazione vacanze in Italia. Senza riuscire a scrollarsi di dosso la spiacevole sensazione di aver dimenticato qualcosa, Mariam chiude a chiave la porta di casa e raggiunge il resto della famiglia nel taxi. Mettendo in moto, l’autista cerca un cenno d’assenso nello specchietto retrovisore: “Aeroporto di Tel Aviv, giusto?”.

Charlie trattiene il respiro senza quasi rendersene conto nell’istante che precede l’apertura delle porte automatiche: una frazione di secondo dopo, un panorama di volti e di braccia che si agitano a richiamare attenzioni gli si spalanca davanti. È una scena che si ripete sempre uguale per ogni aereo che atterra, eppure varrebbe la pena osservarla un po’ in disparte ogni singola volta. L’urto di una valigia lo ridesta di colpo da questi pensieri, riportandolo a vagare con lo sguardo alla ricerca di quattro occhi ben noti, che nell’incrociare i suoi si illuminano di gioia e sollievo insieme, mentre quattro mani sciolgono la stretta d’apprensione per aprirsi in un’attesa di abbraccio. Felice, di ritorno dal viaggio che per la prima volta l’ha visto tornare nella sua terra di origine, la Palestina, Charlie si avvia incontro ai suoi genitori adottivi, le dita automaticamente a sfiorare le lievi cicatrici sul collo.

Ibrahim si chiude alle spalle la porta dell’ufficio e si dirige a passi rapidi verso la macchina, nella speranza di evitare il traffico di fine giornata in uscita da Gerusalemme. Con movimenti automatici si mette in strada, mentre il pensiero vola alla moglie e alla figlia di pochi giorni ad attenderlo a casa. Passando accanto al muro, per la prima volta dopo anni non degna di uno sguardo i vecchi murales sbiaditi dal tempo e dalle intemperie, decrepiti monumenti alla memoria conservati a beneficio di turisti che vi scattano foto in pose ingessate. Il sole è ancora alto nel cielo della torrida giornata di luglio: una voce femminile alla radio informa per l’ennesima volta che questo caldo mancava dall’estate di 30 anni prima, nel 2015.

Mariam oggi ha 4 anni, Ibrahim 2, Charlie una manciata di mesi appena. Li ho incontrati a Betlemme, durante la mia esperienza con il Charity Work Program.

Vorrei poter immaginare così il loro futuro, mentre ora per andare all’estero devono attendere il rilascio del visto fino all’ultimo momento, talvolta per sempre. Per raggiungere Gerusalemme devono presentare ai check point un “permesso” che, quando concesso, fa sostare in lunghe file in attesa dei controlli di routine. I bambini illegittimi, come Charlie, vengono abbandonati a lato delle strade dove le formiche pungono loro a sangue viso e collo. Orfani per volontà dei loro stessi genitori, nel loro domani non c’è alcuna possibilità di riscatto da un destino che non hanno scelto; ad oggi, nessuna speranza di adozione internazionale.

Se da un lato ci si può adattare quasi a tutto, ed è forte la tentazione di cedere alla banalità del bene al punto da apprezzarlo solo nella sua assenza, ciò a cui non bisogna abituarsi è la normalità del male. L’ho visto nella rassegnazione negli occhi degli anziani che, vestiti a festa, il venerdì attendono in silenzio il loro turno ai controlli per recarsi a pregare a Gerusalemme. L’ho visto nel fatto che, in un mondo tanto lontano dalla nostra realtà per lingua, cibo, costumi, è solo nelle persone che ho ritrovato parte del mio: gli anziani che giocano a carte fuori da un bar, i bambini che litigano per un giocattolo rubato, le signore che chiacchierano da balcone a balcone.

Ed è questa somiglianza sostanziale che, alla fine, fa pesare tanto più tutte le altre, piccole e grandi, differenze. Chi parte volontario porta spesso con sé la pretesa spavalda di poter fare la differenza, di insegnare il “modo giusto” di fare le cose. Ho imparato che la superbia non si ridimensiona svalutando il proprio contributo ma, all’opposto, dandogli, quand’anche estemporaneo, tanta rilevanza da indurre all’umiltà. Come e perché persone abituate al rapido avvicendarsi dei volontari trovino il tempo di mettere ciascuno al centro, di pronunciare un “grazie”, quando il grazie più grande lo dovrebbero ricevere, di dire “ora hai una casa in Palestina” a chi si conosce da una settimana appena, questo me lo sono chiesta più volte; rimane per me un mistero, ma in loro ho trovato un esempio cui tendere.

Ho capito che per dirsi aperti mentalmente non basta provare un cibo nuovo o indossare un velo: è una continua lotta con la tentazione spesso inconscia di guardare al diverso con gli occhi di una presupposta superiorità culturale; è il coraggio di definire bello un paesaggio che a casa propria bello non lo si direbbe; è l’onestà di non usare la pietà come categoria per rapportarsi a chi si trova in una situazione di difficoltà, ma che è pari in dignità a chiunque altro al mondo.

Tre settimane, ventun giorni e sempre la stessa domanda negli occhi e nella mente, a risuonare con più forza dopo ogni visita, ogni scoperta, ogni nuovo incontro: per quale futuro tante persone si spendono in un Paese che spesso non è nemmeno il loro? Se una risposta compiuta non mi è stata data, forse ho avuto di più. Mi è rimasto il netto contrasto, quasi l’incoerenza, tra parole e fatti: seppur privi di una visione pienamente fiduciosa del futuro, tutti continuano a impegnarsi per essere concretamente il cambiamento che vorrebbero vedere nel mondo.

Il fatto è che forse ad un certo punto si smette di cercare una motivazione, perché in fondo non è questa a muovere l'impegno, tanto si continuerebbe a fare ciò che si fa anche se l'ultima scintilla di speranza si dovesse spegnere. Come i rifugiati del campo di Aida che, indifferenti all’avvicendarsi delle generazioni, continuano a raccontare ai propri figli la storia delle loro origini, a ricordare che “casa” è altrove e che tutto ciò a cui ambiscono è potervi, un giorno, fare ritorno.

Suor Maria, responsabile del centro che ha accolto Charlie, risponde che è la realtà che si vive quotidianamente che porta ad assumere atteggiamenti più o meno positivi: lei la speranza l’ha dovuta abbandonare per far spazio al presente, rappresentato da quei bambini che ogni giorno bussano alla sua porta.

Qualcuno una volta ha detto che “chi va in Terra Santa una settimana scrive un libro; chi vi trascorre un mese, un articolo; chi vi si trasferisce per un anno non riesce a produrre una riga”.

Merito o colpa di una realtà multiforme, nella quale dimensione politica, sociale e religiosa si intrecciano senza che nessuna prevalga. Una realtà che suscita tante domande senza dare risposte, solo un’unica, grande consapevolezza: che un viaggio così, non può essere che un inizio.

* di Montegrotto Terme (PD), secondo anno della laurea magistrale in Economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo, interfacoltà Lettere e Filosofia – Economia, campus di Milano