di Myriam Altamore *

Chi se la scorda più quell'estate? A due anni dalla laurea e con varie esperienze come educatrice - prima infanzia, disabilità grave, anziani - la mia vita stava diventando insipida. Mi mancava quello slancio vitale di cui ci avevano parlato all’università. Il “fare” educazione nel vero senso della parola. Sognavo altro. E in me riecheggiavano le parole di un professore della Cattolica: «Questo lavoro non vi riempirà le tasche ma il cuore». 

Io il cuore lo volevo pieno e con un bel paio di ali per volare in alto e sognare. Da diversi mesi mandavo Cv all'estero: Belgio, Francia, Svizzera. Poi un giorno a luglio ho fatto un colloquio a Parigi in un centro specializzato nell’autismo e il mio cuore ha preso il volo.

Vivo nella capitale francese dal 2014. Mi ero licenziata abbandonando un contratto di sei mesi in un posto in cui non ero valorizzata come educatrice e uscendo dal colloquio a Parigi avevo un contratto indeterminato in mano. Sono arrivata con due valigie e mi sono sistemata “chez l'habitant”: una famiglia che ti affitta una camera, significa metà dello stipendio che se ne va per l'alloggio. Adesso vivo a Versailles in un monolocale.

Lavoro come educatrice con degli adolescenti autistici. Utilizziamo prevalentemente l’approccio comportamentale e la comunicazione aumentativa alternativa. Siamo formati regolarmente alle varie metodologie e a gestire i disturbi del comportamento e le crisi dei ragazzi. Conosciamo a memoria i movimenti da fare per contenere un giovane o immobilizzarlo a terra. L’autismo prima di arrivare in Francia lo conoscevo solo sui libri studiati all’università. Mi sono messa in gioco e ho imparato. 

Al mattino ci dedichiamo agli apprendimenti dei ragazzi e al pomeriggio facciamo varie attività come il teatro, la fotografia, lo sport, la cucina. Io gestisco l’atelier di cucina e di fotografia e do una mano in teatro. Ho tratto spunto da alcuni corsi fatti in Cattolica, come teatro d’animazione o pedagogia speciale, senza dimenticare i libri sulla Montessori. Oltre a queste attività accompagnamo i ragazzi dal dentista o in ospedale per delle visite e ci occupiamo del progetto educativo individualizzato. 

Parlo francese ma ho delle colleghe che non lo parlano bene e sono state prese lo stesso perché qui quello che conta è avere fegato, conoscere i ragazzi e conoscersi. Sto tornando a casa con un morso sul braccio. Il mio lavoro è così, non sai mai che piega prenderà la giornata ma sorridi. Mi brucia. Ma la forza del rapporto umano è sempre più forte e allora basta un cerotto sulla ferita e si ricomincia. 

Questa mattina ho lavorato con un ragazzino ipovedente che è arrivato qui a gennaio del 2017 e non sapeva esprimere nulla. Adesso quando ha fame sa chiedere, chiede il sale, il pepe, la senape, da bere. Quanti cerotti avrò vinto per arrivare a oggi? Una ventina, forse di più. Forse ne vincerò ancora ma quando lo guardo e mi chiede la merenda facendo il segno “merenda” sono felice e mi basta.

Lo rifarei mille volte se dovessi tornare indietro. Devo tanto all’Università Cattolica perché grazie alla laurea in Scienze dell’educazione ho imparato che non valgo né più né meno dei ragazzi per cui lavoro ma che esiste una relazione che ci arrichisce ogni giorno e che abbiamo solo dei ruoli sociali diversi. Così capita che, anche sei stanca, riesci lo stesso ad accogliere delle urla disperate perché quelle urla sono un modo di manifestare la propria esistenza, il proprio grido alla vita. Forse non si trova su nessun libro questa lezione ma in fondo i libri col tempo si dimenticano. Io preferisco ricordarmi i dialoghi dei professori e rileggere gli appunti presi. 

* 29 anni, di Milano, laurea triennale in Scienze dell’educazione e delle formazione, dicembre 2012. Tesi: “Dal curare al prendersi cura. Responsabilità e alterità” relatore Adriano Pessina