Paola Ortolan, originaria di Vittorio Veneto, sposata con due figli, da circa due anni è giudice del tribunale per i minorenni di Milano a poche centinaia di metri dalla Cattolica, la sua Università mai dimenticata. Il suo percorso professionale l’ha vista, dopo l’esordio di due anni nella Procura presso la Pretura di Caltanissetta, per 17 anni sostituto procuratore presso la Procura di Milano, Dipartimento “soggetti deboli”, dove si è occupata delle vittime vulnerabili (minori abusati e donne maltrattate), in seguito “giudice della famiglia” alla IX sezione civile del tribunale di Milano, sezione specializzata sulla famiglia.

Come è nata la scelta di entrare in magistratura? «Nasce per caso, dato che negli anni degli studi universitari volevo fare l’avvocato, anche se riconoscevo le difficoltà di inserimento e il fatto che non fosse proprio nelle mie corde. Decisivo fu l’incontro con il professor Piero Pajardi, docente di Diritto fallimentare e presidente della Corte d’Appello di Milano, che mi orientò per il concorso in magistratura, lavoro più compatibile con la famiglia. Si tratta quindi di una scelta maturata dopo la laurea. Del resto, dopo il diploma da ragioniera avrei voluto iscrivermi alla facoltà di Psicologia, ma la mia famiglia era dubbiosa su tale percorso professionale e così mi ero iscritta a Giurisprudenza. Mi è sempre rimasto dentro il desiderio di studiare e approfondire la dimensione più umana, per questo ho scelto il diritto di famiglia dove posso coniugare le competenze giuridiche con le conoscenze del mondo psicologico».

Quali sono i settori dei quali si è occupata? «Ho iniziato a Caltanissetta a occuparmi di reati “minori” dato che operavo nella procura presso la Pretura: abusi edilizi, furti, ricettazioni. Inoltre, come sostituto procuratore, mi occupavo di diritto di famiglia, in particolare dell’aspetto penale della patologia familiare quali maltrattamenti, violazione degli obblighi di assistenza familiare, circonvenzione di incapaci, ecc.».

Come vive la sua professione? «Prendendo l’impegno con disciplina e con il giusto coinvolgimento, che presuppone bagaglio professionale e umano per essere persona adeguata, pur considerando la dimensione dell’errore che è pur sempre possibile nell’agire umano. È ovvio che l’esercizio del giudicare fa venire il dubbio se la decisione che si sta assumendo sia quella giusta. Ci sono storie che “prendono” di più, di cui si avverte il peso, e in questi casi sono decisioni, particolarmente, difficili. Per fortuna, oltre alla presentazione di chi espone il caso, si tratta di decisioni condivise, perché frutto di un organo collegiale. Inoltre ci avvaliamo del supporto dei consulenti delle professioni psicologiche o di psichiatria infantile, che integrano il sapere giuridico e aiutano nell’assumere le decisioni».

L’esperienza aiuta? «L’età e l’esperienza di vita personale non rendono più leggero il giudicare, perché siamo più consapevoli delle peculiarità e delle variabili dell’animo umano, ma almeno c’è più sicurezza in quello che si fa e si pensa. Insomma maturare crea esperienza, ma mette qualche dubbio in più che prima non si considerava e rende maggiormente consapevoli della responsabilità che una decisione può avere sulle persone per il tipo di incidenza che provoca nella loro vita. Si pensi, per esempio, all’affidamento di un bambino che deve cambiare casa, scuola, amici. È più facile comminare anni di carcere, se c’è la prova del reato, come previsto dal proprio ruolo punitivo nei binari della sanzione, che decidere dell’adottabilità di un bambino e, poi, procedere all’abbinamento con la sua nuova famiglia, incidendo così su tutta la sua esistenza. E sui rapporti affettivi. Nelle relazioni personali, non è il giudice che crea le difficoltà e le fratture, ma è determinante per orientare il futuro».

Consiglierebbe oggi a un neolaureato la carriera in magistratura? «Sì, la consiglio, si tratta di un servizio essenziale per il funzionamento della democrazia. Diventare un buon giudice è un ideale da mantenere per tutta la vita. Certo anche i magistrati sono uomini con pregi e difetti (siamo circa 10mila in organico su 61 milioni di cittadini). La pigrizia, la disonestà, la corruttibilità, la mancanza di imparzialità, la superficialità sono aspetti legati al nostro umanissimo essere. Il magistrato deve avere una solida struttura personale, equilibrio, deve far crescere se stesso in tutte le dimensioni, entrare in empatia con le persone. Noi vediamo tutti i problemi dell’umanità - devianza, rotture familiari, difficoltà economiche - ma li vediamo dalla nostra stanza, senza un contatto col mondo esterno, e se non studiamo e non ci aggiorniamo, diventiamo autoreferenziali in un mondo chiuso, che non comprende i problemi dell’esterno e ciò malgrado li deve giudicare».

Qual è stato per lei il valore aggiunto di aver studiato in Cattolica? «Per me che venivo dalla provincia, dal profondo Nord-Est, essere inserita nell’Ateneo dei cattolici italiani ha costituito una prima esperienza nazionale, ha rappresentato un grande salto. In questa dimensione ho anche scelto il collegio Marianum, per il desiderio di vivere un modello di “campus americano”. In effetti in Cattolica ho trovato tante opportunità e gente nuova, di regioni diverse, ho conosciuto le esperienze ecclesiali delle altre diocesi, in un arricchimento reciproco. Per questo considero l’esperienza al Marianum la più bella della mia vita. Ragazze di tutte le regioni d’Italia unite in un percorso di formazione comune in cui ci sostenevamo a vicenda. Un sostegno importante, visto che gli studi richiedevano impegno e la permanenza in collegio era sottoposta alla condizione di superare un certo numero di esami all’anno. Sono stata per un anno vice direttrice del collegio, dove sono ritornata di recente per una testimonianza in occasione dell’ottantesimo dalla fondazione. Sono orgogliosamente anche iscritta all’associazione Mea delle ex collegiali».

Ricorda in modo particolare qualche docente dell’Università di largo Gemelli? «Mi sono laureata con il professor Piero Schlesinger in Istituzioni di diritto privato e dopo la laurea ho collaborato con il professor Pajardi. Ricordo anche monsignor Sandro Maggiolini, assistente spirituale del Marianum (poi vescovo di Como), così come don Giorgio Berti, scomparso poco tempo fa, e don Giorgio Basadonna, docente dei corsi di Teologia».

Di recente ha scritto il libro “La toga addosso” in cui illustra la sua vita di donna e di giudice nel contesto familiare e sociale. Come si è trovata con questa esperienza inedita di scrittrice? «In questo libro mi sono messa in gioco nel dare una lettura della mia vita personale e professionale. Un riconoscimento di coraggio, come hanno detto colleghi e avvocati. Presentarlo è stata l’occasione per parlare dei compiti della magistratura e della mia esperienza nel senso di un dovere di testimonianza che ho maturato proprio tra i chiostri e le aule dell’Università Cattolica».

 


 

L’intervista a Paola Ortolan sarà pubblicata sul prossimo numero di “Presenza” in uscita a fine ottobre. La rivista è sfogliabile online sul sito Unicatt