L’intervento di monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica, conclude il dibattito aperto dall’articolo dal titolo “Arrivano i robot”, dedicato a come l’intelligenza artificiale sta cambiando noi e il nostro modo di vivere e di pensare
di monsignor Claudio Giuliodori *
Quando si affronta il tema della cosiddetta “intelligenza artificiale” è molto importante capire qual è il punto di osservazione e la prospettiva entro cui ci si muove. Si può semplicemente prendere atto con meraviglia e stupore dei formidabili progressi in atto, grazie alle nuove tecnologie informatiche e digitali, ai calcolatori e alle macchine, fino a” ipotizzare situazioni di concorrenza e addirittura di superamento di alcune capacità umane. Oppure vedere questo innegabile progresso nel contesto di un confronto con l’umano inteso in tutta la sua ampiezza e potenzialità che non è riducibile alla sola capacità di calcolo e alla operatività tecnica.
Nella Bibbia troviamo questa descrizione legata alla creazione dell’essere umano: «Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro per pensare. Li riempì di scienza e d’intelligenza mostrò loro sia il bene che il male» (Siracide 17, 6-7). Mi sembra uno sguardo sull’umano particolarmente utile per affrontare il nostro tema. È un testo antico ma la descrizione che ci offre è ricca di sapienza e ci può aiutare a inquadrare la questione dell’intelligenza artificiale. In sostanza, ci ricorda che l’essere umano è un composto complesso e meraviglioso, non riducibile a una sola componente. Il corpo, i sensi, la mente, il cuore (con il suo ampio spettro di significati simbolici) concorrono a fare dell’uomo un essere pensante dotato di facoltà che lo distinguono sostanzialmente dal resto della creazione e ancor più dalle macchine. Non dimentichiamo la “canna pensante” di Pascal: «tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È da qui che bisogna partire, non dallo spazio e dalla durata, che noi non sapremmo riempire. Impegniamoci quindi a pensare bene: ecco il principio della morale» (Pensieri, 186).
Se è giusto che l’intelligenza e le capacità scientifiche di cui è dotato l’essere umano siano messe a frutto raggiungendo livelli sempre più alti e raffinati nella realizzazione di “artifici”, cioè cose fatte veramente ad arte, non credo che l’obiettivo da raggiungere sia quello di creare improbabili replicanti umani su basi puramente tecnologiche, lasciandosi soggiogare dalla tentazione, antica e sempre nuova, di essere creatori e padroni di noi stessi. Più suggestivo, ma certamente ancora più complesso e delicato è il tema dell’ibridazione uomo-macchina con l’inserimento di chip o la sostituzione di parti del corpo umano con apparati bionici. In questo caso si arriva a toccare e a manipolare la struttura dell’umano aprendo scenari di difficile comprensione, e forse imprevedibili, che necessitano di una particolare attenzione e valutazione se non si vuole con troppa leggerezza mettere in archivio la storia e l’identità dell’essere umano così come fino a oggi le abbiamo conosciute.
È interessante come nel testo biblico a fianco degli elementi qualificanti del soggetto umano si evochi la sua capacità di discernere il bene e il male, cioè tutto l’ambito della dimensione valoriale, etica e del libero arbitrio. Questo aspetto che possiamo definire “meta-fisico”, giusto per evocare un termine in disuso, ma forse in questo caso più che pregnante, non è né secondario né separabile dalla reale condizione dell’essere umano. Da qui nasce l’arte, la filosofia, la letteratura, e tutto ciò che rende l’uomo diverso dalla macchina. L’uomo non vive di funzioni ma di passioni, cioè di quel “pathos” che continuamente lo rinvia alla sua origine e al suo destino. L’uomo visto nella prospettiva della macchina e la macchina umanoide tendono sempre più a ridurre lo spazio dei sentimenti e della libertà accettando ed esaltando la logica di quel determinismo che un certo biologismo evoluzionista, tipico della modernità, è andato imponendo alla visione antropologica del nostro tempo.
Alcune precisazioni terminologiche possono essere utili per un approccio a queste problematiche che non sia pregiudiziale ma neppure foriero di facili e ingenui entusiasmi. Mi domando, per esempio, se non sarebbe più utile usare l’espressione “ragione artificiale” più che “intelligenza artificiale”. Il termine intelligenza, a partire dalla sua etimologia latina (dall’avverbio intŭs premesso al verbo legĕre) indica, infatti, la facoltà di andare oltre e in profondità nella comprensione della realtà. Dovremmo quindi considerare l’intelligenza non tanto per la sua mera capacità di calcolo o nell’ottica del «problem solving», quanto piuttosto per la sua dimensione intuitiva e speculativa. San Tommaso, sulla scorta delle distinzioni operate da Aristotele, parla dell’intelligenza come di una luce che è data all’uomo per penetrare le verità più nascoste e profonde. Per la sua natura non si identifica con il cervello, le funzioni neuronali e i processi razionali.
Concretamente, noi elaboriamo il pensiero anche grazie al cervello ma soprattutto con l’intelligenza. Il cervello è un organo sensitivo, è materiale e misurabile in termini razionali. L’intelligenza invece è una facoltà spirituale e risiede nell’anima. Forse per questo è più corretto usare il termine ragione che deriva dal latino “ratio”, cioè dalla connessione logica di ragionamenti che sono tra di loro sequenziali come accade esattamente per la sequenza dei processi digitali. Mi sembra pertanto più corretto considerare quanto si sta sviluppando nel campo delle innovazioni tecnologiche come un processo di sviluppo della “ragione artificiale” piuttosto che dell’intelligenza.
Da questo punto di vista l’intelligenza include la ragione tra i suoi strumenti ma non si identifica con essa e ha un orizzonte molto più ampio. Possiamo allora affermare che la “ragione artificiale”, nella sua funzione di «problem solving» e con tutti i suoi possibili e auspicabili sviluppi, può essere una grande risorsa per l’umanità, se gestita e sviluppata con intelligenza. Sarà comunque importante non dimenticare mai che nel cuore dell’uomo c’è un desiderio irriducibile che lo spinge ad elevare la mente e il cuore alle cose ultime e più grandi, a Dio per chi ha fede. Sarà fondamentale comporre sempre in modo armonico la ricerca interiore fatta attraverso l’intelligenza con le competenze della ragione, anche quella artificiale, perché, come afferma San Tommaso: «La mente umana, per essere unita a Dio, ha bisogno di esservi come condotta per mano da cose sensibili, perché le realtà invisibili si colgono con l’intelligenza solo mediante quelle visibili» (S.Th., II-II, q. 81, a. 7).
* Assistente Ecclesiastico Generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Diciottesimo e ultimo articolo di una serie dedicata a come l’intelligenza artificiale ci sta cambiando