Con questo articolo proseguiamo il dibattito - aperto il 18 giugno dall’intervento su Cattolici e politica del professor Agostino Giovagnoli - a cento anni dall’appello di don Luigi Sturzo “agli uomini liberi e forti”. Un manifesto che, anche un secolo dopo, non ha perso smalto e freschezza.
di Antonio Campati *
Nel dibattito pubblico, il termine élite è avvolto da una patina di negatività. Eppure, non bisogna dimenticare che le élite sono importanti per un buon funzionamento della democrazia. Lo sapeva bene don Luigi Sturzo che in diverse occasioni sottolinea come il dinamismo interno alla democrazia sia dato proprio dalla formazione e dalla circolazione di nuclei politici ed economici. Scrive nel 1946: «Chiamiamo questi nuclei élites, con grave scandalo dei demagoghi che fanno appello alle folle. Se il termine non piace, se ne scelga un altro, la nozione rimane perché è nelle cose».
Ai giorni nostri, complice l’innovazione tecnologica, taluni credono che non sia più necessario delegare il potere a una minoranza ristretta, poiché ormai tutti possono intervenire direttamente per orientare le scelte politiche. È un’idea che fa breccia in larghi strati dell’opinione pubblica, e talvolta trova anche qualche riscontro nella realtà (si pensi a quelle leggi modificate o persino cancellate perché «ce lo chiede la rete»). Però, un discorso serio sul funzionamento della democrazia non può prescindere dal ruolo e dalle funzioni delle élite: non è corretto adottarle semplicemente come categoria polemica da contrapporre al popolo.
In tal senso, il pensiero e l’azione di Sturzo ci dicono ancora molto. Fondando un partito politico, il sacerdote di Caltagirone non ha certamente l’obiettivo di precludere l’ingresso nella vita politica alla «folla». Tutt’altro. È proprio la sua iniziativa a spingere molti italiani, e molti cattolici, nell’arena democratica, rendendoli partecipi a pieno titolo delle sue dinamiche. Ma ciò che Sturzo ha ben chiaro in mente è che all’interno della democrazia deve crearsi un dinamismo virtuoso per favorire la circolazione di élite con qualità apprezzabili (e per ostacolare la formazione di oligarchie).
A tal proposito, si apre un altro capitolo molto interessante, ed estremamente attuale. Scrive due decenni dopo il fatidico gennaio 1919: «Come in una fabbrica non ci può essere macchinista o ingegnere o direttore senza la capacità, così nella società politica non si deve arrivare a esserne dirigenti senza le qualità necessarie e il tirocinio sufficiente». Com’è possibile educare e selezionare una classe politica adeguata? Un compito tanto delicato, per Sturzo, lo può assolvere soprattutto il partito, il quale, con la sua organizzazione e con le sua vita interna, consente al popolo di esprimersi in forma organizzata. Specialmente – come auspica nell’Appello a tutti gli uomini liberi e forti – se lo stato deve rappresentare «la più sincera espressione del volere popolare».
Pensando all’oggi, è vano denunciare genericamente la mancanza di «qualità necessarie» nella classe politica. L’eredità di Sturzo ci può allora aiutare in una duplice direzione: da un lato, a diffondere la consapevolezza che le élite sono importanti per il funzionamento della democrazia; dall’altro, che queste devono affrontare un «tirocinio» capace di renderle davvero consce delle loro responsabilità. Il che non significa solamente acquisire conoscenze tecniche, ma alimentare costantemente la propria vocazione ad essere una minoranza libera e forte, cioè al servizio del popolo.
* assegnista di ricerca in Filosofia politica, facoltà di Scienze politiche e sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore
Sesto articolo di una serie dedicata ai cento anni dall’Appello ai liberi e forti di don Luigi Sturzo