Nell’emergenza Covid hanno fatto notizia, accanto a medici e infermieri, anche i sacerdoti. Molti perché, per stare vicini ai malati negli ospedali e nelle case di riposo, hanno contratto la malattia e, talora, sono anche deceduti. Tutti perché non hanno abbandonato la vicinanza alle persone colpite in maniera diretta o indiretta. Tra di loro anche molti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica, che, accanto al loro impegno in Ateneo, sono stati in prima linea su diversi fronti


«Esistono due percorsi per trovare la fede: il primo alla San Paolo, che ha scoperto Cristo improvvisamente; il secondo quando, essendo già immersi in un contesto religioso, ci si accorge che dentro di noi risuona qualcosa di bello che dà senso alla nostra esistenza. Il mio caso è il secondo… Nessuna caduta da cavallo insomma». Don Maurizio Medina si descrive così: un amore per Dio e per gli altri, che fin da piccolo l’ha portato a frequentare ambienti cattolici, e un forte desiderio di diventare prete, anche se «le motivazioni di quando ero piccino non sono le stesse che mi hanno portato a diventarlo. Voglio avere del tempo da dedicare a Dio e alle persone che mi circondano. Sembra una frase fatta- mi confessa- ma è proprio così».

Quali attività svolge oggi? «Sono parroco di una piccola parrocchia nella zona sopra al Lago Maggiore, una comunità di 3.000 persone, insegno a un seminario di Teologia delle Religioni a Novara e sono docente di Teologia alla facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica a Milano. Nel passato ho insegnato anche religione ai liceali, ma l’insegnamento accademico è molto differente: alle superiori prevale la relazione con lo studente, all’Università i contenuti che, per quanto siano approfonditi, devono essere trasmessi con una forma semplice. Questa è la sfida più grande del teologo che, immerso nel mistero di Dio, parla con molta semplicità. Gesù ne è l’esempio lampante: era un uomo con i piedi per terra, ma che aveva la capacità di parlare del mistero di Dio con enorme semplicità. Lui ne era capace, noi balbettiamo, ma ci proviamo».

Con l’avvento del Coronavirus, come sono cambiate le attività di cui si occupa? «Ciò che è cambiato più radicalmente non interessa la mia vita come prete o insegnante, ma la piccola casa di riposo dove ho un incarico di responsabilità, Fondazione Maria Grazia Taglietti. Lì abbiamo vissuto direttamente l’esperienza del virus: all’inizio si pensava che non sarebbe mai arrivato, quando è arrivato abbiamo sperato che non fosse Coronavirus, poi abbiamo cercato un colpevole e infine, quando ci siamo resi contro di esserci dentro, abbiamo detto: “dobbiamo fare qualcosa”. Ho incontrato da vicino il Covid ed è qualcosa di estremamente serio. Alla casa di riposo abbiamo perso alcuni anziani a cui volevamo molto bene, è stato molto difficile».

Un impegno molto oneroso… «Il mio grande lavoro in questo mese e mezzo è stato sostenere la casa di riposo, altri miei amici preti si sono lanciati su Internet proponendo messe e catechesi. Credo sia giusto che ognuno, in questo momento, reagisca a modo proprio. Io ho provato ad evitare la paura e mi sono dato al 100% a questa causa insieme agli Oss che, devo dire, hanno tirato fuori un grande coraggio».

Dopo l’ultimo Decreto che ha sancito l’inizio della Fase 2, la Cei (Conferenza Episcopale Italiana) ha dissentito per la riapertura delle Chiese e delle funzioni religiose. Lei cosa ne pensa? «Essendo stato a contatto con il Covid e avendo visto da vicino le conseguenze che porta, penso che si dovrebbe essere molto cauti. È una situazione faticosa per tutti, ma se dietro alle affermazioni del Governo non c’è un pregiudizio anticattolico, come mi auguro che sia, stanno procedendo con cautela e saggezza, quindi mi fido». 

Cosa le è mancato di più della sua quotidianità? «Io sono un pigro (ride), stare a casa non mi è dispiaciuto. La normalità è piena di fretta, è esagerata. Questa situazione è senza alcun dubbio drammatica, ma questo tempo fermo ci ha permesso di riscoprire qualcosa che stavamo perdendo della bellezza dell’uomo. Quello che più mi manca è senza dubbio il contatto fisico con le persone, i mezzi tecnologici non possono sostituire la presenza dell’altro».


Terzo di una serie di articoli dedicati all’impegno dei preti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica sul fronte Coronavirus