Nell’emergenza Covid hanno fatto notizia, accanto a medici e infermieri, anche i sacerdoti. Molti perché, per stare vicini ai malati negli ospedali e nelle case di riposo, hanno contratto la malattia e, talora, sono anche deceduti. Tutti perché non hanno abbandonato la vicinanza alle persone colpite in maniera diretta o indiretta. Tra di loro anche molti assistenti pastorali o docenti di teologia del’Università Cattolica, che, accanto al loro impegno in Ateneo, sono stati in prima linea su diversi fronti


In questi giorni così difficili non solo il corpo, ma anche lo spirito ha bisogno di cure perché questo è anche il tempo del disagio e del dolore. Lo sa bene padre Enzo Viscardi, psicologo, assistente pastorale presso l’Università Cattolica e attualmente responsabile di una comunità di accoglienza per sacerdoti in difficoltà. 

Cosa significa questo clima di quarantena per una persona che cerca di portare aiuto? «Ho vissuto in prima persona questo clima. Ho avuto un contatto diretto con l’essere isolato. Non ho provato particolare angoscia per la mia malattia quando ebbi i sintomi del Covid, ma ho vissuto invece l’ansia per chi stava vivendo nella comunità in mia assenza. È stato un continuo contatto con persone ammalate: da parte mia la vivevo con serenità, ma comunque confrontandomi con l’ansia e l’angoscia di questi sacerdoti che di fronte al fatto di non riuscire a guarire hanno avuto un po’ di crisi. La paura è indipendente dal ruolo che uno riveste e le reazioni sono diverse».

La fede in questo momento è uno strumento per combattere la paura o serve anche qualcos’altro, per esempio un apporto psicologico? «In questo momento per chi ha fede ci sono due atteggiamenti: abbandonarsi al Signore e avere speranza. Abbondonarsi al Signore significa affidarsi a Lui, pregare di più per sentirLo vicino. Questo è forse l’aspetto più confortante della fede. Se sei uomo di fede sei anche vicino a coloro che soffrono e come sacerdote diventi mediatore tra Dio e il popolo. La gente si rivolge a te non per avere spiegazioni su quanto sta accadendo, ma per affidarti la loro angoscia, la loro paura, il loro dolore, loro stessi».

È un’assegnazione di fiducia simile a quella per i medici? «Parzialmente. Tu ti affidi al medico perché ti guarisca, al sacerdote perché ti aiuti a trovare un senso in tutto quello che sta succedendo. C’è una richiesta implicita che tu riesca a declinare questo momento con domande importanti. La riflessione che le persone fanno è rispetto al valore della propria vita, al sentirsi veramente incerti, alla fragilità. È quindi una richiesta di mediazione: una persona che ti presenti a Dio e ti mostri che il Signore c’è in quello che sta avvenendo».

Questa opera di mediazione è qualcosa di adatto a persone di ogni età e indipendentemente dall’essere o meno credenti? «Secondo me sì. La declinazione pratica di questa mediazione è un ministero di consolazione. La consolazione è una forma di empatia attraverso la quale tu partecipi e comprendi il dolore. Di fronte a questo smarrimento la gente non ci chiede di essere una persona forte, anzi il rischio sarebbe di essere banali. La gente vuole sapere come il sacerdote riesce a vivere nonostante l’ansia e come la fede trasmetta una serenità anche di fronte alla morte. Sono temi che in situazione di normalità sfuggivano, mentre ora invece sono più approfonditi, dai credenti e non».

Alla fine dell’intervista padre Viscardi ha ricordato come il medico e il sacerdote oggi convivano con il dolore delle persone, in particolare quando dopo la morte non seguono i funerali ormai non più definibili «riti convenzionali». Da qui le celebrazioni pasquali di quest’anno ci hanno fatto riflettere sull’importanza dell’ultimo saluto ai propri cari: «Il venerdì santo è stato vissuto proprio come contemplazione di un Cristo sulla croce che moriva nel silenzio e nella solitudine, come è capitato a molte persone, una morte ingiusta».


Primo di una serie di articoli dedicati all’impegno dei preti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica sul fronte Coronavirus