Nell’emergenza Covid hanno fatto notizia, accanto a medici e infermieri, anche i sacerdoti. Molti perché, per stare vicini ai malati negli ospedali e nelle case di riposo, hanno contratto la malattia e, talora, sono anche deceduti. Tutti perché non hanno abbandonato la vicinanza alle persone colpite in maniera diretta o indiretta. Tra di loro anche molti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica, che, accanto al loro impegno in Ateneo, sono stati in prima linea su diversi fronti


Don Luca Peyron si definisce un «prete felice di esserlo» e, anche se a dividerci è un cellulare, la sua voce allegra e rassicurante me lo conferma. La sua è una vocazione adulta: «Prima di entrare in seminario facevo il consulente in proprietà industriale, il lavoro più bello del mondo perché passavo il mio tempo tra inventori e creativi. È stata Suor Maria di Gesù Bambino a chiedermi per la prima volta se volessi farmi prete. Inizialmente le dissi di no, ma quel semino mi rimase dentro per diversi anni. Solo dopo un periodo difficile, alla fine di una settimana di vacanza passata con un mio zio prete, mi decisi. Il 16 giugno 2007 diventai sacerdote per la Diocesi di Torino». 

A oggi, però, don Luca Peyron è anche direttore della Pastorale Universitaria della Diocesi di Torino, coordinatore del servizio per l’apostolato digitale, docente di Teologia e dell’Innovazione all’Università Cattolica di Milano e non solo.

Il fil rouge che lega le sue numerose nomine è il contatto con i giovani. Che rapporto stringe con loro? «Leggo il mio essere prete in mezzo ai giovani in due modi: innanzitutto ascoltandoli perché, così facendo, raccolgo qualcosa di cui la Chiesa possa beneficiare, ricordandoLe così di essere sempre giovane; poi esercitando la mia paternità, ovvero provando a farli crescere e diventare adulti, condividendo con loro la mia adultità. In questo momento, la cosa più difficile è stare nelle fatiche di molti di loro: accompagnare medici e infermieri che si trovano in mezzo ai malati, senza poter fare nulla. È difficile essere un padre con figli frantumati».

Crede che ci sia un modo per far avvicinare i giovani alla fede? «Se ci fosse un modo non lo userei. Io credo che i giovani, come tutti gli altri, abbiano delle domande, che tento di intercettare per far capire loro che le risposte sono in Cristo. I ragazzi non devono essere comprati offrendo loro degli spazi o delle responsabilità: una parrocchia è un luogo dove si sceglie di andare per offrire qualcosa di sé, non un luogo dove ci si può approfittare di qualcosa. Così facendo è molto più difficile: molti pezzi non li avrai mai, tutto è più friabile, ma si ha garanzia di libertà».

Come sta vivendo le sue giornate durante questa emergenza sanitaria? «Un incubo. Prima della pandemia la mia giornata tipo non esisteva, prendevo un treno per Milano, poi uno per Roma, andavo a lauree avevo lezioni. Se avessi perso l’agenda a dicembre sarei morto, adesso non la guardo nemmeno più. Oggi la giornata è piena, dalle 8:00 alle 20:00 sto al telefono e al computer. Non avendo più i volontari in parrocchia, devo occuparmi da solo dell’amministrazione. Nella vita normale mi sveglio la mattina sapendo che andrò in università e incontrerò persone e mi chiedo «Signore, oggi per chi?». È bello poi, la sera, dare un volto a quel «per chi». Oggi che tutto questo è sigillato, si tratta di continuare a prendersi cura delle relazioni che c’erano prima e il tempo che mi è dato lo spendo a pensare».

Lei è a capo di un servizio di di apostolato digitale. In cosa consiste? «L’apostolato digitale consiste nel pensare in modo intergenerazionale al significato della cultura digitale e ciò che ci circonda. Significa provare a raccogliere un pensiero e delle intuizioni rispetto al mondo che verrà sapendo che il mondo che verrà è sempre meno predicibile rispetto all’esperienza che abbiamo del mondo che è stato. Se questo era vero prima, con la pandemia in corso è vero mille volte. Se guardiamo al domani, le costanti che ci sono servite in passato per delineare il futuro, sono andate in pezzi, non abbiamo costanti. Tutti gli schemi sociologici, psicologici ed econometrici che avevamo per guardare al domani sappiamo che non funzioneranno e quindi il domani dobbiamo inventarlo».

Qual è l’aspetto della sua attività che più le manca? «Senza dubbio la fisicità e tutto ciò che è prossemica. Le racconto un episodio… Nel 2012 Massimo Gramellini pubblicò un libro sulla sua vita, Fai bei sogni e cinque anni dopo, a Torino, ne girarono il film. Il cappellano mi chiese se volessi partecipare e io accettai. Avrei dovuto girare le due scene in cui Gramellini bambino, durante una messa, dopo aver perso la madre, prendeva la Comunione due volte pensando che sarebbe entrato in contatto col divino. La prima scena fu subito buona la prima, ma la seconda scena in cui mi sarei dovuto mostrare arrabbiato, la ripetemmo 19 volte. Dissi al regista che nella vita reale non mi sarei arrabbiato se un bambino avesse preso la Comunione due volte e allora «Si mostri contento», mi disse. Cambiammo la scena e fu subito un successo. Tutto questo per dirle che nel dare la comunione, per finta o per davvero, io sorrido. Ma, con la mascherina, sarà un disastro».


Secondo di una serie di articoli dedicati all’impegno dei preti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica sul fronte Coronavirus