di Milena Santerini *

Siamo qui con una memoria ancora viva della deportazione, consapevoli di aver avuto più di settant’anni di pace grazie all’Europa unita che ha saputo finora mantenere la promessa: mai più la guerra, mai più la Shoah.

Si è concluso l’anniversario delle leggi razziali del 1938 in cui non abbiamo esonerato gli italiani dalle loro responsabilità. Mentre in altri paesi europei si tenta una distorsione della narrazione dell’Olocausto, e si cerca di dichiararsi innocenti dei crimini nazisti, in Italia non abbiamo dimenticato di aver collaborato. Come ha detto il Presidente Mattarella: è vero, il regime fascista non fece costruire camere a gas e forni nel territorio nazionale ma «le misure persecutorie, la schedatura e la concentrazione nei campi di lavoro favorirono enormemente l'ignobile lavoro delle SS». 

Molte vittime, lo sappiamo, furono donne. Nel buio dei campi non si distinguono uomini o donne perché l’umanità stessa doveva essere sottratta ai deportati per non far riemergere nei persecutori e negli spettatori un sentimento di compassione e di vicinanza. Come scrive Primo Levi: “Considerate se questa è una donna / Senza capelli e senza nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d'inverno”.

Ma l’umanità era solo celata, nascosta perché un essere umano resta sempre tale anche quando è percosso, sfinito, torturato, isolato da tutti. Nei racconti delle donne sopravvissute alla Shoah ricorre il ricordo della nudità di chi non ha più nulla; non solo i vestiti ma la famiglia, la casa, la vita di prima. C’è il ricordo della disperazione per quello che avevano lasciato, soprattutto le madri che difendevano i loro figli fino all’estremo. 

Né migliori né peggiori degli uomini, le donne hanno attraversato il buio della Shoah affrontando fame, freddo, percosse, solitudine, abbandono con il continuo stupore, l’incredulità che si potesse arrivare a tanto. In tutte le razzie e nei rastrellamenti come quello del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, infatti, fuggivano e si nascondevano i giovani maschi, pericolosi in guerra, mentre restavano in casa donne e bambini perché si pensava che non sarebbero stati presi. E invece furono presi. Si salva - come racconta Anna Foa - chi si accorge in tempo che i tedeschi prendevano proprio tutti. 

Janina Bauman ricorda una paura che non finiva mai nel ghetto di Varsavia. Nel convoglio del 24 gennaio 1943, ricorda Charlotte Delbo, 230 donne entrano a Birkenau. Il 3 agosto sono rimaste in 57. Annette Epaud, una resistente, è sorpresa a dare acqua a una donna ebrea del blocco 25 e viene mandata anche lei al gas. 
Settimia Spizzichino fu l’unica donna scampata alla deportazione a Roma. 47 ne ha viste morire. Celia Stojka racconta la morte delle donne rom nei campi.

I sommersi sono tutti uguali, uomini e donne, bambini e vecchi, tutti quelli che non sarebbero tornati a raccontare. Ma le donne sanno e vogliono raccontare. Dice Goti Bauer: «Parlo al plurale perché la sofferenza che abbiamo vissuto lì è di tutti». 

Le donne raccontano degli altri come fa Liliana Segre, attorno alla quale è nata l’esperienza del Memoriale della Shoah di Milano, che nonostante la fatica della testimonianza ha scelto di continuare a raccontare in nome di Violetta Silvera, Janine, Lina Besso, Bianca Levi, la signora Morais e altri: una lezione di vita per tutti noi. 

Edith Bruck esce dal lager senza odio o desiderio di vendetta provando un’immensa pietà per l’umanità e spiegando ai più giovani che non è mai tutto perso.

Certo, c’era chi maltrattava e puniva anche tra le donne, le Kapo, le spie. Come sappiamo da Hannah Arendt non c’è bisogno di capacità eccezionali per compiere un male banale ma proprio per questo più pericoloso, dettato non da una radicale volontà ma dal conformismo dei singoli. Le persone si adeguano con passività stupefacente a una logica del “noi contro loro”, accettano che si tolgano diritti ad alcuni solo per la colpa di essere nati. Allo stesso tempo, pur sottomessi o mossi da interesse, non sono mai privi di responsabilità. 
 
Ce lo insegna la storia di Celeste detta Stella di piazza Giudia, che denunciava gli ebrei correligionari del ghetto di Roma indicandoli uno a uno ai fascisti e ai tedeschi e si sentiva onnipotente quando bastava un sì o un no per dare o togliere la vita.

Ed è una donna, Gitta Sereny, che dopo la guerra si immerge in quelle tenebre e intervista a lungo Franz Stangl direttore del campo di Treblinka per capire cosa sentiva mandando a morte le persone, ed è a lei che Stangl spiega: “Raramente li vedevo come persone. per me era sempre e soltanto un’enorme massa». 

La storia riporta tanti casi di amicizia tra le donne. Non sappiamo se questo nasca da un altruismo materno ma sicuramente in vari casi le donne hanno saputo creare uno spazio di libertà, dignità e aiuto reciproco anche solo stando insieme. La dignità che i persecutori vogliono toglierti può essere restituita da uno sguardo umano, da persona a persona. Margaret Buber Neumann nasconde Germaine Tillion che scrive: «I tenui fili dell’amicizia erano come sommersi dalla nuda brutalità di un tumultuoso egoismo ma tutto il lager ne era visibilmente intessuto».

Il male non è inevitabile come ricorda nella Bibbia la storia della Regina Ester - anche lei deportata, che protegge il suo popolo. Scrive Todorov che ogni detenuto, uomo o donna, ricorda di essere stato almeno una volta curato, consigliato, protetto da un altro. Restare umani nel lager non era eroismo ma “autoconservazione”.
    
Il ricordo del raro ma prezioso altruismo nei campi e dei Giusti dell’umanità, fa riflettere anche oggi, in un momento in cui si indeboliscono il legame e la solidarietà tra “noi” e gli “altri” che percepiamo come estranei oppure si colpevolizza chi aiuta o salva le vite di questi “altri” in mare o altrove. In questo modo si incrina tutta la fitta trama di legami e di amicizia civica che ci protegge. Spegnere la simpatia e la solidarietà tra persone che non si conoscono, di cui non si sa la lingua o il nome significa fare del male a noi stessi, alla nostra dignità, impoverire il senso della vita e della cittadinanza. Considerare gli altri stranieri morali, espone anche noi stessi ad essere estranei per gli altri, e a poter essere - in qualsiasi momento - esclusi arbitrariamente dalla familiarità tra esseri umani. 

Neanche il lager, nonostante l’abbrutimento, spegne del tutto il legame fortissimo che unisce gli esseri umani tra loro. Dire “non è dei nostri” è la strada dell’egoismo del noi, il “noismo” di cui parlava Primo Levi, che porta alle divisioni anche all’interno di uno stesso paese, prima o poi all’odio, al razzismo, all’antisemitismo. Uomini e donne testimoni della Shoah rimasti umani sono una pietra d’inciampo per tutti. Possono anche essere divelte queste pietre, ma ci saranno sempre dei giovani che le rimetteranno al loro posto. 

*  Docente di Pedagogia generale alla facoltà di Scienze della formazione, campus di Milano. Intervento pronunciato al Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica, giovedì 24 gennaio 2019