Una vita spesa nel darsi agli altri, quella di Gino Strada, uno dei protagonisti della Giornata del dono, in programma lunedì 5 ottobre alle 11.30 alla sede di Piacenza dell’Università Cattolica.
«Non ho mai pensato troppo a questa parola, ho fatto il mio mestiere e questo mi basta» ci dice il fondatore di Emergency. «Certo, in generale, essere sensibili al bene altrui è cosa positiva, e credo sia una propensione che caratterizza la natura dell’essere umano, va coltivata e incentivata. Vedo un’umanità disponibile a occuparsi degli altri: forse non maggioritaria, ma molto presente».
Pensando agli ultimi mesi, dominati da una pandemia che ha travolto la vita di tutti, c’è qualcosa che l’ha sorpresa di più, che non si aspettava neanche lei, abituato alle situazioni estreme? «Non mi aspettavo questo collasso dei sistemi sanitari. E non me lo aspettavo non perché non ce ne fossero le premesse, ma non pensavo che la pandemia sarebbe stata di questa violenza. Devo dire che c’è stato in molti Paesi, non solo in Italia, un tracollo che ha messo in chiaro la fragilità di sistemi basati sull’idea di profitto, della medicina come merce, come bene. Una cosa che ci deve fare riflettere, anche perché come è capitata questa epidemia, ne possono succedere altre e dovremo essere preparati».
Quale segno ha lasciato la pandemia e cosa ci dobbiamo aspettare nel futuro a breve termine? «Credo che il futuro sia ancora tutto da delineare. Certo la preoccupazione è grande, perché con ogni probabilità ci potremo trovare di fronte a un grosso dramma sociale: parlo a livello internazionale, con molti milioni di posti di lavoro persi. Questo delineerà una società profondamente diversa. Non sappiamo ancora delinearne i contorni, ma certamente sarà difficile continuare come prima. Il che, al di là del dramma delle vite umane perse, non è detto che sia un disastro, né per l’economia, né la società: dovremo adattarci a una società diversa, che mi auguro si dimostrerà più aperta, più inclusiva. Credo che l’unica strada da battere sia quella di vincere gli egoismi, pensarci tutti come una collettività, come un insieme».
I giovani e la propensione al donarsi: spesso accusate di acceso individualismo le nuove generazioni dimostrano slanci di generosità potenti. Come si può coltivare questa propensione? «Non c’è una ricetta, purtroppo: però vedo tanti giovani attivarsi, darsi da fare senza risparmiarsi, anche nel corso di questa epidemia. Anche a Milano lo abbiamo sperimentato quando abbiamo cominciato a distribuire pacchi a persone in difficoltà, ci sono stati molti ragazzi che si sono resi disponibili. Il messaggio che ne ho tratto è stato molto positivo. Alle nuove generazioni suggerisco di non essere disinteressati, di abbandonare l’egoismo: perché ne vale la pena e perché è giusto».