La campanella suona e la lezione inizia con una canzone. Non è il sogno di uno studente assonnato, ma l’inaugurazione dell’annuale Rassegna Milano per Gaber, che prende il via dall’Università Cattolica con una lezione aperta, su iniziativa della facoltà di Scienze politiche e sociali e in particolare del professor Fausto Colombo. Una lezione che è soprattutto un incontro con Giorgio Gaber, in esplorazione dei concetti di libertà e appartenenza, alla riscoperta dell’attualità ancora forte delle parole del suo teatro-canzone. Proprio per questo si è scelta l’aula Manzoni, che con la sua forma a emiciclo e i suoi banchi pieni di storia ricorda un po’ il momento di un’esibizione, dove sul palcoscenico è ancora una volta il Signor G.
Guido Merzoni (nella foto a lato), preside della facoltà, apre la lezione spiegando l’importanza del ricordo del cantautore per il grande contributo all'arte e alla cultura popolare, con un senso critico sul divenire della società che rimane ancora oggi un punto di vista importante. «Quello che vorrei cercare di fare oggi è stabilire il ruolo di un artista nel suo tempo, inteso come capacità di lasciare un messaggio», afferma Fausto Colombo (nella foto sotto) introducendo la lezione.
Quale modo migliore per farlo che affidarsi proprio alle parole di Gaber? Ecco così che la lezione si trasforma in un percorso a tappe tra le sue canzoni (Qualcuno era comunista, La libertà, Destra-Sinistra, Io non mi sento italiano e Illogica allegria, tra le altre) e i monologhi letti da un bravissimo Claudio Bernardi. Un excursus storico a partire dagli esordi di Gaber come cantante, per poi passare alla televisione e arrivare all’esperienza del teatro canzone a fianco di Luporini. Una storia che, decennio dopo decennio, diventa uno spaccato sociale della sua Italia, di cui Gaber si fa interprete e critico cantando le nevrosi dell’uomo contemporaneo.
È proprio il teatro che permette al Signor G di far emergere la sua spiccata abilità espressiva. Lo dirà lui stesso: «La scoperta del teatro, cioè di un mezzo che mi consentiva di dire quello che pensavo tramite il mio mestiere, è stata di enorme importanza. Le due ore di spettacolo, per esempio: guai se fosse un quarto d'ora, perché io ho problemi di sblocco iniziale, di accostamento a quella spudoratezza che ogni artista credo debba avere, e che a me arriva man mano che vado avanti, perché all'inizio dello spettacolo io scapperei via. Credo di avere, di base, una sorta di chiusura che mi fa quasi dire alla platea: “Scusate, io sono su e voi siete giù, ma è un fatto casuale, succede perché stavolta sono io che devo dirvi qualcosa”».
C’è soprattutto la società italiana nelle parole del cantautore ed è una società in cui la politica ha ruolo importante. Più che possibile è necessaria, ma frenata da egoismi e tendenze al conformismo, da una certa grettezza interiore che Gaber non manca di rilevare in modo puntuale. Il problema non è mai la politica in sé, ma come la si usa: una buona politica esiste ed è dentro di noi, è una sfida alla nostre mediocrità, ma la vediamo sempre al negativo, quando manca. Di questo c’è traccia nei suoi monologhi (uno su tutti: E Giuseppe?), sintomi dell’urgenza del parlare dell’oggi e cercare di capire l’intenzionalità della storia. In tutto ciò il ruolo dell’individuo non manca di responsabilità: alcuni compiti spettano a ciascuno di noi e non li possiamo eludere.
La lezione era iniziata chiedendosi cosa ci avesse lasciato l’artista. La risposta è nel suo modo di raccontare la realtà dandoci una chiave interpretativa. Come si può dire che uno è un artista, se non ti dà qualcosa nella vita? Ed è la capacità di Gaber di trovare le parole che noi non avremmo saputo trovare per esprimere ciò che proviamo, per rianimarci, a renderlo grande. Fausto Colombo conclude dicendo che dobbiamo molto più di una lezione a Gaber: «Gli dobbiamo la parola più grande, che gli dobbiamo dire: grazie signor G, grazie Giorgio Gaber».