di Bruno Forte *

Il rapporto fra la teologia e Parola di Dio è così decisivo per il pensiero della fede, che non a caso il Novecento teologico conobbe presto un’appassionata polemica proprio riguardo ad esso: ne furono protagonisti il giovane Karl Barth e il suo maestro berlinese, ultimo grande corifeo della teologia liberale, Adolf von Harnack. Questi aveva rivolto pubblicamente Quindici domande a quei teologi che disprezzano la teologia scientifica, indirizzandosi di fatto all’antico allievo. Barth aveva replicato con Quindici risposte al Professor von Harnack, che a sua volta gli rispose con una lettera aperta, cui seguirono un’ulteriore replica di Barth e un intervento conclusivo di Harnack. Il Maestro berlinese rimproverava ai “detrattori della teologia scientifica fra i teologi” l’aver abdicato al metodo storico-critico, il solo in grado di evitare il rischio di confondere “un Cristo immaginario con quello reale”, oltre che di procurare alla teologia dignità e rispetto fra le scienze. Era convinzione del Professore di Berlino che chi trasforma “la cattedra teologica in pulpito”, compromette anche la continuità fra l’umano nei suoi gradi più elevati e il divino, aprendo la strada alla barbarie e all’ateismo. Una teologia dipendente dalla Scrittura sarebbe forse pure edificante, ma di certo poco scientifica e del tutto incapace di parlare a intelligenze libere e adulte.

Nelle sue risposte - non prive della veemenza del neofita - Barth punta l’indice contro quel mondo teologico “cui è diventato estraneo e inaudito il concetto di un oggetto normativo, davanti all’unica normativa del metodo”. Dove si riconosce correttamente il primato dell’Oggetto puro, della Parola divina nelle parole con cui si comunica agli uomini, lì ogni soggettivismo è fugato e la teologia si incontra al livello più alto e fecondo con la predicazione, perché entrambe si riconoscono al servizio della rivelazione di Dio. Arbitrio e soggettività si insinuano, al contrario, lì dove il primato è dato alle parole degli uomini piuttosto che all’auto-comunicazione divina. Ogni continuità fra al-di-qua e al-di-là va rifiutata: fra i due mondi ci sarà sempre “una relazione dialettica, che rimanda ad un’identità che non può essere compiuta, e perciò neanche affermata”. Il contingente resta solo un pallido rimando all’eterno: una teologia che non dipendesse dalla Parola di Dio non sarebbe neanche teologia. E poiché il Dio vivente sta e resta oltre ogni cattura umana, vera teologia sarà sempre luminosa tenebra, oscurità rischiarata dalla sola luce della fede, generata dalla Parola della rivelazione.

L’abisso fra i due teologi è quello fra due epoche: l’Ottocento liberale e borghese, ormai sulla via del tramonto, e la rampante “teologia dialettica” novecentesca, che Barth inaugura mettendosi in ascolto dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani. Rispetto all’appello finale di Harnack al suo interlocutore perché ammetta che “mentre suona il proprio strumento, Dio ne ha anche altri”, la posizione del giovane Teologo resta tranciante: “tutto è terribilmente relativo”, solo Dio merita ascolto e obbedienza. Qualche anno più tardi Barth ribadirà la medesima tesi nel suo importante saggio su Anselmo d’Aosta, interpretato come il testimone dell’assoluto primato di Dio sull’intelligenza indagante: “Una scienza della fede che negasse o mettesse in dubbio la fede… smetterebbe non soltanto ipso facto di essere credente, ma pure di essere scientifica. Le sue negazioni fin da principio non sarebbero affatto migliori di una disputa di pipistrelli e civette con le aquile sulla realtà dei raggi del sole a mezzogiorno” . La teologia, insomma, sta o cade con l’ascolto obbediente della Parola di Dio, e perciò la questione del suo rapporto con la Sacra Scrittura è per essa veramente decisiva.

Se ne occuperà in tutta la sua rilevanza il Concilio Vaticano II: recependo i risultati del “ressourcement” biblico, patristico e liturgico dei decenni che lo avevano preceduto, il Concilio produce come frutto maturo la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum. In essa, al n. 24 - nell’ambito del capitolo finale, dedicato a La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa - si afferma: “La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio; sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia” . La portata di questo testo è immediatamente percepibile se si pensa alla polemica nata a partire dalla Riforma contro l’aridità della teologia delle Scuole, che riduceva l’uso della Sacra Scrittura ai cosiddetti “dicta probantia”, asserviti al primato dell’argomentazione concettuale. Così, il giovane Lutero, nelle tesi 19 e 20 della Disputatio di Heidelberg (1518), non aveva esitato a contrapporre il vero teologo, che dipende totalmente dalla rivelazione contenuta nella Scrittura, al falso teologo, che specula in termini solo umani: “Non può dirsi veramente teologo chi scruta le profondità invisibili di Dio pensando di conoscerle attraverso ciò che è stato creato, ma solo chi di Dio conosce ciò che è si è reso visibile e rivolto a noi come di spalle attraverso la passione e la croce” .

Si comprende allora che, se nel testo citato della Dei Verbum il Vaticano II afferma con chiarezza l’assoluto primato della Parola rivelata su ogni conoscenza della fede, un tale primato non esclude in alcun modo le sfide del vissuto umano, le assume anzi perché trovino luce nell’auto-comunicazione del Verbo procedente dal divino Silenzio. Solo così la Parola si offre nel suo senso più profondo e nella potenzialità degli orizzonti che schiude all’esistenza umana in questo mondo.

È perciò a queste sfide e a queste luci che vorrei accostarmi per rapportare ad esse il dono della Parola, riconoscendo in ciascuna un’icona capace di rivelare l’umano a se stesso e di aprirlo all’avvento divino. Muovendo dalla sfida dell’interruzione e dall’icona del dolore, la più universale di tutte le domande, mi accosterò all’esistenza umana intesa come esodo e, proprio così, come icona dell’attesa. A questa attesa corrisponde anzitutto il divino Silenzio, che suscita e nutre l’ascolto, in cui la Parola di Dio viene ad abitare le parole degli uomini perché possa realizzarsi l’incontro dell’avvento e dell’esodo, e gli abitatori del tempo possano accogliere l’auto-comunicazione dell’Eterno. Una riflessione conclusiva toccherà la preghiera e l’icona della lotta e della resa, da essa evocata. [leggi il testo completo]

* teologo, arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto. Prolusione tenuta in aula magna a Milano il 15 marzo 2017