di Roberto Zoboli *
Il terremoto che ha colpito l’area tra Rieti, Ascoli Piceno e Perugia ripropone questioni che il nostro Paese dibatte da decenni in tema di perdite umane, danni economici e, soprattutto, strategie di prevenzione senza risultati veramente efficaci a lungo termine. Lasciando per un momento da parte le tragedie umane causate da terremoti, inondazioni e frane, che in Italia hanno causato migliaia di morti negli ultimi decenni, la dimensione economica delle catastrofi è di per sé stessa tale da richiedere grandi strategie.
Le stime, basate anche sull’analisi di cataloghi storici e stime pre-esistenti, indicano come nei 69 anni fra il 1944 e il 2012 il danno complessivo prodotto da terremoti, frane e alluvioni in Italia abbia superato i 240 miliardi di euro, con una media di 3,5 miliardi l’anno. I costi maggiori sono dati dai terremoti, mentre le calamità idrogeologiche hanno contribuito per circa il 25% al danno complessivo, pari a 61,5 miliardi (2011), con una media di 0,9 miliardi l’anno. Si tratta di stime basate sugli stanziamenti (non sempre le spese effettive) di bilancio pubblico e quindi non coprono che una parte dei costi effettivi (interruzione di attività e reti, perdite di capitale produttivo, ecc.).
La prevenzione di questi costi e delle vite umane perse ha, a sua volta, dei costi di investimento ingenti, che però si stima abbiano dei ritorni molto superiori anche in termini puramente economici. Le stime di tipo costi-benefici per gli Stati Uniti indicano che un dollaro investito in prevenzione/mitigazione ex ante rende 4 dollari di costi evitati ex post. Analoghe stime per l’Italia sono in corso di realizzazione nel progetto interdisciplinare su “La valutazione economica dei disastri naturali in Italia” sostenuto da Fondazione Generali e condotto da tre istituti del Cnr (Ircres, Irpi, Idpa), Ingv e Centro di ricerca interuniversitario di economia ambientale Sustainability, Environmental Economics and Dynamics Studies (Seeds), di cui fa parte l’Università Cattolica. In prima approssimazione, se si applicasse all’Italia un rapporto benefici-costi di 4:1, investendo in prevenzione i 3,5 miliardi che ex post “paghiamo” ogni anno in media per i disastri si avrebbero 14 miliardi/anno di costi futuri evitati, il che giustificherebbe, anche sul piano puramente economico, una strategia pluriennale di investimenti in prevenzione.
Sul perché l’Italia non investa in prevenzione, una volta passato il clamore di eventi drammatici, pesano due fattori. Il primo è costituito dai limiti, veri o presunti, di finanza pubblica. In questi giorni circola la stima di 93 miliardi/€ di investimenti per mettere in sicurezza antisismica le strutture abitative, una cifra che equivale al 5,7% del Pil italiano del 2014 ma non rappresenta tutti i fabbisogni di prevenzione, ad esempio per frane e alluvioni. Investimenti del genere sono certamente gravosi per una finanza pubblica sempre sul filo dell’insostenibilità e incontrano limiti anche nel Patto di Stabilità europeo. Sono limiti che il Governo sta cercando ora di superare per i costi ex post dell’evento in Centro Italia ma rimangono ancora insuperabili per gli investimenti pubblici di prevenzione ex ante, il che costituisce una condizione del tutto irrazionale. L’unicità dell’Italia dal punto di vista dei rischi territoriali imporrebbe comunque una strategia nazionale di investimento regolare, prolungato e quotidiano, condotta di governo in governo come fatto essenziale di protezione delle “casa comune”.
Il secondo fattore è culturale. La prevenzione dei disastri e delle loro conseguenze richiede una cultura del rischio e dell’adattamento che è largamente assente nel nostro paese, dai comportamenti delle persone a quelli delle amministrazioni pubbliche. In un campo collegato ai disastri naturali, cioè il cambiamento climatico, la frontiera delle strategie si chiama “adattamento”, vale a dire strategie di minimizzazione delle perdite causate da un cambiamento climatico che è già in atto e non può essere completamente controllato – ed è proprio a questo tema che l’Università Cattolica dedica una linea della sua ricerca di interesse di Ateneo per il 2016. L’accettazione culturale da parte di tutti che la straordinaria bellezza dell’Italia, nessuna parte esclusa, nasconde un’alta o altissima condizione di rischio naturale è un pilastro fondamentale di qualunque strategia di prevenzione che non cada nel vuoto di quello che gli economisti chiamano “azzardo morale”.
Ma poiché le culture, così come la politica, cambiano lentamente, sono necessari altri strumenti. Si parla da tempo, soprattutto dopo il terremoto emiliano e la riforma della Protezione Civile del 2012, di schemi assicurativi contro le catastrofi naturali. L’Italia, a differenza di altri paesi europei, ne è priva. La penetrazione di assicurazioni catastrofali è limitata nel caso delle imprese (ma le imprese emiliane colpite dal sisma hanno ricevuto 700 milioni/€ di rimborsi assicurativi) e quasi assente nel caso delle abitazioni, con circa l’1%-2% soltanto assicurato contro questi rischi. Il dibattito sul modello assicurativo è articolato, ma quasi inevitabilmente punta verso un sistema pubblico-privato, come in altri Paesi europei, ad esempio la Francia. In un tale sistema, lo Stato è chiamato a impegni chiari e credibilità come co-assicuratore o ri-assicuratore, e a ridurre i rischi attraverso investimenti in prevenzione, piuttosto che operare come “assicuratore ex post” che ripaga i costi dei disastri con una finanza pubblica precaria. Anche per questa via occorre quindi una virata spettacolare della cultura pubblica del nostro Paese.
* Docente di Politica Economica, facoltà di Scienze Politiche e Sociali, è tra gli autori della ricerca