di Chiara Ionio *
Essere genitori oggi è sicuramente una grande sfida, una sfida ancora più grande che un tempo, dal momento che i genitori si trovano spesso soli ad affrontare le difficoltà quotidiane della crescita del proprio bambino.
In una società dove siamo sempre connessi e dove le informazioni di cui abbiamo bisogno sono sempre vicino a noi, sembra difficile associare la solitudine all’esercizio della genitorialità. Qualsiasi informazioni sulla crescita del proprio bambino un genitore abbia bisogno è di immediato reperimento sul web. Così come pullulano sui social network gruppi di “auto-mutuo aiuto” di genitori.
Eppure le notizie che ci arrivano dal mondo mi sembra che ci stiano portando a fare una riflessione sulla solitudine dei genitori, soprattutto di quei genitori che hanno dei bambini che richiedono un livello di accudimento più elevato, perché portatori di una qualche forma di patologia cronica.
È di pochi giorni fa la notizia relativa al bimbo di 11 anni che è stato “rifiutato” dalla sua famiglia e inserito in un centro che si occupa della cura di bambini autistici. Non sono note le cause che hanno portato la famiglia a questo gesto estremo. I quotidiani scrivono che “i genitori non lo vogliono più”. La Fondazione interpellata sostiene: “O sono disgraziati o sono disperati”.
Credo a questo punto che sia importante sottolineare come la condizione di patologia cronica del figlio possa avere un grande impatto non soltanto sullo sviluppo del bambino, ma anche sui suoi parenti, sulle relazioni e in generale su un intero sistema familiare (Hafetz & Miller, 2010; Herzer et al., 2010; Nabors et al., 2013). L’esito dell’adattamento di questi genitori può infatti dipendere da diverse variabili che si possono configurare come fattori o di rischio o di protezione.
È inoltre importante sottolineare come la condizione di malattia cronica di un bambino si configuri come un evento che influenza a 360 gradi la vita quotidiana dei genitori (Dockerty et al., 2000), di entrambi i genitori, madri e padri, ma anche dei fratelli o di altri membri della famiglia coinvolti nella cura del bambino. La patologia di un bambino va quindi a impattare sull’intero sistema familiare: per poter parlare, infatti, di “benessere” della famiglia sarebbe importante prendere in considerazione molteplici dimensioni che hanno a che fare con aspetti concreti, materiali e con aspetti sociali, culturali, psicologici e relazionali.
È a questi diversi e molteplici fattori che le politiche sociali dovrebbero fare riferimento occupandosi quindi di una dimensione economica, di cura, di tutela, di promozione e di sostegno nelle diverse funzioni, tra cui quelle genitoriali. La famiglia, infatti, non è un soggetto a sé, isolato dal contesto sociale, autoreferenziale, ma un attore fondamentale inserito in un sistema complesso di continui scambi e interazioni; è la famiglia che “garantisce” la crescita e lo sviluppo delle nuove generazioni ed è su di lei che ricadono le responsabilità e i compiti maggiori inerenti alla socializzazione e al benessere del bambino.
Le famiglie che si occupano della cura e della crescita di bambini con patologie croniche, quindi, dovrebbero essere quotidianamente sostenute e aiutate a uscire dalla loro solitudine, solitudine che sovente l’accudimento di questi bambini amplifica ulteriormente.
Credo infine che il sostegno non si debba presentare soltanto nel momento del bisogno, ma che siano necessari interventi di prevenzione, che possano iniziare già durante la gestazione (ad esempio per quelle patologie già diagnosticabili o per quelle situazioni di maggiori difficoltà) e continuare nel periodo postnatale, in modo che si possa lavorare veramente a fianco delle famiglie per sostenere sempre più il loro benessere e la loro autonomia. E perché i bambini vengano veramente tutelati.
* docente di Psicologia delle relazioni traumatiche e Psicologia dell’infanzia e del counseling, facoltà di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore