di Felicia Vilasi *
Dopo tre scali e un viaggio talmente lungo da farti capire di essere giunta dall’altra parte del mondo, io e Liboria arriviamo a Cape Town, questa città meravigliosa all’estrema punta sud del continente africano: estrema come la sua natura, come la sua storia, come l’entusiasmo della sua gente.
Appena il tempo di mettere da parte valigie e incertezze, diamo inizio a quella che oggi chiamerei una meravigliosa sfida, un’immersione totale nel mondo dello “Scalabrini Centre” di Cape Town, un centro pensato per aiutare i rifugiati che hanno bisogno di assistenza legale, educazione, supporto economico.
Lo so che quello che sto per dire potrebbe sembrare scontato, ma voglio correre questo rischio. Vivere un’esperienza di questo tipo ti scuote dall’interno, ti aiuta a capire quali sono le priorità, ti insegna che la vita è qualcosa di straordinario, perché molto spesso, in Africa, vivere è già un gran privilegio.
Durante le consulenze dell’Advocacy Team incontri una donna dello Zimbabwe che ti racconta di essere fuggita dalla guerra civile, di aver contratto l’Hiv, di essere stata stuprata ripetutamente. Eppure ha un sorriso contagioso perché oggi ha appena saputo che il suo Appeal è stato accolto e che quindi potrà avere un permesso per restare in Sudafrica con i suoi figli, senza più essere costretta a tornare ogni mese a Pretoria per rinnovare i documenti. Una soluzione temporanea, è vero, ma qui tanto le certezze non esistono, la vita si vive giorno per giorno.
Poi arriva un ragazzo sedicenne che qualche anno fa ha lasciato la sua famiglia in Sudan per scappare dalla guerra, ha il sorriso di chi ha dovuto imparare troppo presto a non aver paura. È un sorriso che ti fa sentire piccolo, ti fa credere che forse è vero che Dio si nasconde dove meno te lo aspetti, nelle parole di chi porta dentro di sé qualcosa di immenso, anche se non lo sa.
Oggi però il suo sorriso è spento perché ha appena saputo che il suo permesso di studio è scaduto e che dovrà tornare in Sudan. Non ha denaro, non ha una famiglia, non ha nessuna certezza nella vita. Eppure ti ringrazia per l’aiuto, prende il suo sacchetto di plastica che probabilmente raccoglie tutto ciò che possiede e torna a casa a studiare perché domani ha un esame importante.
Durante i test iniziali per formare le nuove classi, incontri Jean Pierre, congolese, che viene allo Scalabrini per imparare l’inglese. Per testare il suo livello, gli chiedi cosa chiederebbe se qualcuno potesse dargli qualunque cosa al mondo. E lui, dopo averci pensato un po’, ti risponde: “I’d like to have knowledge”. Non vorrebbe soldi, non vorrebbe una casa, lui che non ce l’ha. Vorrebbe conoscere.
Nella township di Khayelitsa i bambini ti abbracciano, ti corrono incontro, vogliono che tu balli con loro e soprattutto continuano ad accarezzarti come se non avessero mai visto nulla di così straordinario. Poi una mamma ti fa notare che è una reazione normale, perché loro una persona bianca non l’hanno mai vista nella loro vita.
Il Work Charity Program è stato per me molto più di un’esperienza di volontariato: è stato un uragano che ha scombussolato quella che io prima consideravo la piattezza della quotidianità, fatta di studio, amici, famiglia.
E non potete immaginare quanto sia bello pensare che questa quotidianità è rara, preziosa, sapendo che dall’altra parte del mondo (e forse, senza saperlo, anche accanto a noi) c’è chi una famiglia non ce l’ha più e la vorrebbe riabbracciare, non può studiare eppure ce la mette tutta per farlo, gli amici li aveva ma la guerra se li è portati via.
Ogni tanto, quando cammino per strada, ho come la speranza che da un momento all’altro davanti a me si apra l’oceano e che dall’angolo della strada sbuchino Jean Pierre, il ragazzo Sudanese, i bambini di Khayelitsa. Nel mio cuore io li vedo, li abbraccio ogni giorno. E li ringrazio, perché mi hanno insegnato a capire che la vita è qualcosa di immenso.
* 22 anni, di Reggio Calabria, quinto anno del corso di laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza, facoltà di Giurisprudenza, campus di Milano