di Valentina Monopoli *
Quando è venuto il momento di partire per l’Africa sono cominciate ad affiorare le domande: sarò pronta? Sarò in grado di gestire la situazione? Sarò abbastanza forte? E si è insinuato il dubbio: forse sarebbe stato meglio se fossi rimasta a casa a Milano, circondata dalle tue certezze, dalla “solita” vita e dal caos cittadino. Ma nel momento in cui il primo bambino ti corre incontro per abbracciarti e riempirti di baci tutte le preoccupazioni svaniscono. È in quel momento che capisci di dover rivalutare l’idea che ti eri fatta dell’Africa e dei suoi abitanti. È lì che capisci di essere partita per conoscere chi sembra diverso da noi, ma che in realtà ci somiglia molto più di quanto si possa pensare.
Arrivate a Debre Birhan, le suore ci hanno accolto benissimo facendoci sentire subito a casa nostra. Il primo giorno di scuola ero un po’ spaesata perché non sapevo bene come muovermi. Nella struttura delle suore della Divina Provvidenza, fino al giorno prima deserta, ci sono circa 900 bambini che giocano e corrono dappertutto. C’è chi fa a gara per venirci a conoscerei e chi invece, più timido, ci osserva da lontano.
Ci siamo ambientate subito anche perché i bambini, così come nelle altre parti del mondo, non hanno grandi pretese. Cercano semplicemente qualcuno che giochi con loro, in una realtà dove spesso non si ricevono tutte le attenzioni di cui un bambino avrebbe bisogno. Al mattino giocavamo con quelli dell’asilo prima che iniziassero le lezioni. La mia attenzione è ricaduta subito sul fatto che bambini dai tre ai cinque anni venissero lasciati in giardino, sia che ci fosse il sole, sia che piovesse a dirotto, senza che ci fosse qualcuno a controllarli. Eppure non appena la maestra suonava la campanella correvano a mettersi in riga per cantare l’inno nazionale e pregare prima di entrare in classe.
Al pomeriggio, finita la scuola, ci raggiungevano i ragazzini delle medie e delle elementari con cui ci siamo divertite a fare ogni tipo di gioco dal twister alle staffette, dal salto della corda a palla prigioniera. Le bambine adoravano intrecciare i nostri capelli perché, come dicevano loro, noi “frenj” (bianchi) abbiamo i capelli diversi. Era sempre difficile doverli mandar via, ma dovevano necessariamente tornare a casa prima del tramonto poiché le strade non erano illuminate e camminare da soli di sera non è raccomandabile neppure lì.
In più di un’occasione siamo state invitate a casa di alcuni ragazzini che frequentavano la scuola. Ci hanno offerto delle pietanze tipiche e il caffè, preparato secondo la tradizionale cerimonia che prevede che ogni passaggio, dalla tostatura alla macinatura sia svolto lì, sotto gli occhi dell’ospite.
In Etiopia questo è un momento di condivisione molto importante per le famiglie. La generosità degli etiopi mi ha veramente toccato il cuore. È stato davvero commovente vedere come persone che hanno così poco siano disposte a offrire tutto quello che hanno. Nonostante le poche possibilità i bambini sono felici, molto più di quanto non possa esserlo un bambino occidentale. Amano studiare perché per loro la scuola non è un obbligo ma la possibilità di un futuro migliore. E sono proprio le piccole cose che conserverò di questa esperienza, unite al loro valore e alla consapevolezza che dovremmo fermarci a riflettere e (re)imparare da questi popoli.
* 21 anni, di Castellaneta (Ta), terzo anno laurea triennale in in Scienze linguistiche e letterature straniere, facoltà di Scienze linguistiche, campus di Milano