Pubblichiamo l’intervista di Velania La Mendola al professor Gabrio Forti pubblicata sul numero 1-2 Gennaio-Febbraio 2019 di "Presenza", l'house organ dell'Università Cattolica
di Velania La Mendola
Sentenze dei tribunali al vaglio di trasmissioni tv, giustizia fai da te, avvocati del popolo, processi online: la legge in Italia non è affare di pochi e non lo è mai stata. «E non dovrebbe esserlo» ci dice Gabrio Forti, in tutti altri toni, nel libro La cura delle norme. Oltre la corruzione delle regole e dei saperi (Vita e Pensiero). Abbiamo incontrato l’autore, professore di diritto penale dell’Università Cattolica e direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale, per capire meglio lo stato di salute della nostra giustizia e quanto questo ci riguardi.
Professore, di quale malattia soffre il diritto penale? «Di eccedenza. Il "troppo" di sanzioni presenti nell’ordinamento, tanto proclamate quanto poco applicate, ne mina alle fondamenta credibilità ed efficacia. Tale patologia che coinvolge l’intero ordinamento – e che nel libro viene definita “corruzione delle norme” – produce un effetto anche più grave della inflazione prodotta dall’eccesso di “moneta” punitiva».
Quale? «Un’erosione di quelle risorse morali e sociali che dovrebbero prevenire e regolare i conflitti ben prima che questi si presentino, ormai incancreniti e incurabili, al cospetto di giudici e pubblici ministeri. È come se la foresta straripante e infestante di norme e sanzioni giuridiche togliesse ossigeno all’etica pubblica e privata, ne soffocasse la crescita, generando una sorta di tossicodipendenza regolativa, nella forma di un bisogno compulsivo e compensatorio di sempre più norme, sempre più sanzioni, illudendosi di trarne aria per il proprio respiro. Una sorta di malattia autoimmune del sistema a ingravescenza progressiva che attacca le basi della convivenza e contribuisce a generare infelicità, oltre che aggressività diffuse».
C’è quindi un legame tra l’erosione del diritto e quello della conoscenza? «Per intervenire in modo misurato e proporzionato, non “eccedente”, norme e sanzioni devono essere preparate dallo studio e dalla conoscenza dei problemi che pretendono di affrontare. Nel libro si descrive il perverso circolo vizioso che spinge a mascherare l’inadeguato approfondimento delle situazioni da regolare (che richiederebbe competenze nelle istituzioni e amministrazioni, per la raccolta di dati, la consultazione di esperti, l’ascolto delle comunità interessate, ecc.) con una corsa al rialzo dei divieti e delle punizioni, utili solo per esibire un impegno tanto appariscente quanto privo di una reale potenzialità di cambiamento. Il che produce effetti erosivi sulla stessa cultura di un paese».
Qual è il rischio? «Si finisce per accreditare una visione antropologica deteriore, l’idea di un essere umano concepito come un automa meccanico, reattivo e obbediente ai soli stimoli dolorosi che gli vengano sventolati sotto il naso e non invece convinto a osservare le norme dalla loro rispondenza a valori condivisi e dalla loro effettiva capacità di orientare le condotte. È da questo intreccio di corruzione delle norme e dei saperi che sorge il bisogno di cura (anche nel senso di “prendersi cura”) che dà il titolo al libro».
Il suo libro è un continuo incrociarsi tra diritto, vita e letteratura, un caleidoscopio di letture che spaziano tra secoli e generi, unite da un comune denominatore: l’alterità. Sia nel senso di aprirsi all’altro, sia in quello di non seguire la massa ma trovare una via insolita, meno battuta. Ma cosa ha a che fare l’alterità con la legge che è fatta da regole ben precise? «La legge deve saper trovare ‘parole giuste’ che rendano il più possibile giustizia alla molteplicità dei mondi umani. Il che vuol dire saper tradurre in norme le narrazioni delle persone, l’attenzione alle loro storie, anche le più diverse e “altre”. Perché solo la comprensione senza modelli astratti e precostituiti delle situazioni sociali su cui si vuole agire beneficamente è in grado di realizzare in modo persuasivo e non retorico le condizioni di una buona convivenza, che sono poi anche quelle conformi a i principi enunciati dalla nostra Costituzione. Altrimenti la legge si riduce a vuota declamazione, adeguandosi al modo in cui la intendeva l’avvocato Azzecca-garbugli interpellato da Renzo: uno strumento per perpetuare gli arbitrii del potente di turno e lasciare le persone comuni prive di difese. È significativo il monito che si sente dire nell’ultimo capitolo dalla voce di Ifigenia, a non appigliarsi alla legge “avidamente per farne un’arma alle nostre brame”».
Tra tutti gli scrittori citati è appunto Goethe il protagonista dei suoi ragionamenti, per lei autore-nume della giustizia. Perché proprio lui? «Goethe è stato definito un uomo che “non conosceva il risentimento”. Basterebbe forse solo questo per rispondere alla sua domanda. Non è un ideale da poco, nella nostra epoca della rabbia, del livore e del risentimento».