di Giulia Restelli *
«Il primo sbarco non si scorda mai». È un’ironia carica di drammaticità quella utilizzata da Davide Enia (in primo piano nella foto con il collega Giulio Barocchieri), drammaturgo, scrittore e attore siciliano, per parlare dell’arrivo dei migranti a Lampedusa. Lo fa davanti agli studenti del corso di Drammaturgia della facoltà di Lettere e filosofia dell’Universitàà Cattolica, proprio nei giorni in cui al Teatro Piccolo Grassi di Milano va in scena il suo spettacolo intitolato L’Abisso, ispirato al suo romanzo, “Appunti per un naufragio”
L’abisso è terapia, è ammissione di ciò che è successo. È terapia per Davide, che attraverso il ricordo esce dal suo abisso profondo, ma è terapia anche per noi, che possiamo ascoltare qualcosa di vero, che accade realmente, ma di cui non siamo informati, o lo siamo male.
L’abisso fa parte del filone del teatro di narrazione. Davide, laureato in Lettere in Università Cattolica, non è solo sul palco, e nemmeno a lezione. Accanto a lui c’è Giulio, che si occupa della musica, suonando alternatamente due chitarre, una classica e l’altra elettrica. Giulio parla poco, ma si intuisce che a dire tanto sono e saranno le sue dita sulle corde dello strumento musicale. Non sempre servono parole (è questo un tema caro allo stesso Davide, che invita a dare un senso e un valore a ciò che si dice). Giulio racconta che insieme all’amico ha ricreato i canti dei pescatori, ed è riuscito a riprodurre “l’abbanniata”, la nenia dei venditori nei giorni di mercato a Palermo.
I due attori dimostrano un forte legame con la loro terra, Palermo, per tutto il corso della lezione. È uno dei fili conduttori. Davide porta nell’aula, come in scena, la sua esperienza, ma non solo. La sua voce è quella di un sommozzatore, grande, quasi un gigante, che ogni giorno nuota e salva vite umane. L’attore racconta i suoi dubbi, quale direzione prendere: destra o sinistra? “Salvo una mamma con un bambino o cinque uomini?” Davide parla anche riportando le parole dei pescatori di Lampedusa, che nelle loro reti non trovano solo pesci, ma anche numerosi cadaveri umani.
La sua voce è anche quella di Paola, lampedusana che lo ha ospitato durante la sua permanenza sull’isola. Lei vive in una casa proprio accanto al mare. Vede sbarchi da 30 anni. Ha salvato molte vite, eppure non riesce a ricordarlo, perché? Paola è traumatizzata, esattamente come tutti gli abitanti dell’isola di Lampedusa, che vivono circondati dalla morte. Essi vivono da anni una situazione tremenda, stanno in silenzio, non scambiano parola. Guardano attoniti, stremati, lo spettacolo della morte. Vivono di essa. Lampedusa è silenzio e trauma, e anche Davide ha vissuto il suo.
Dopo l’esperienza a Lampedusa l’attore ammette di non credere più ai telegiornali, che ci riportano una realtà velata, filtrata, quasi privata dalle emozioni. Davide vuole raccontarsi, raccontare, guarire, e sensibilizzare; in poche parole crea in noi un abisso, vero e reale. Racconta di essersi accorto di avere un profondo irrisolto, un abisso da cui risalire, e dice che è stata la compagna a riportarlo alla realtà, e fargli prendere coscienza della situazione, dopo averlo visto passare un’intera giornata a fare marmellata di arance, ininterrottamente. Un gesto meccanico, vuoto.
All’attore urge che le persone comprendano il senso di ciò che accade a Lampedusa e agli abitanti, che non vengono mai presi in considerazione. Davide racconta del suo approdo a Lampedusa, e anche di aver scelto il padre come accompagnatore. Lo definisce “muto”, il tipico padre siciliano, legato a un’idea patriarcale di famiglia. Lo sceglie proprio per questo. È un’esperienza in cui non serve parlare, forse è addirittura sbagliato.
Il padre dà dignità alle parole, ed è ciò che Davide ci suggerisce di fare. Il racconto degli sbarchi e dei lampedusani si interseca con quello dello zio dell’attore, malato di un grave tumore, parte (e in una certa qual misura soluzione) del trauma del nipote. La morte sembra essere la protagonista dello spettacolo, ma si intuisce che essa non è mai sola: la speranza le fa da contraltare. Davide conclude la lezione invitandoci a “fare la rivoluzione”, a essere noi stessi, e a non farci mai costringere da nessuno a fare qualcosa. È stato un incontro forte, sotto l’aspetto dei contenuti (molto sensibili) e delle emozioni. Aleggiava un silenzio, a tratti pesante, in aula. Le parole di Davide avevano una forma, hanno preso vita e anima, rapendo l’attenzione di tutti. Forse era proprio questo uno dei suoi obiettivi. Assolutamente raggiunto.
* studentessa del terzo anno di lettere moderne, facoltà di Lettere e filosofia dell'Università Cattolica