Una pandemia non l'aspettava sicuramente nessuno. Nemmeno, per quanto sempre pronti e educati, nelle aule e in tirocinio, a prepararsi a ogni “allerta”, i medici più giovani, particolarmente i neolaureati, in questa emergenza direttamente “in campo”. Abbiamo raccolto alcune delle loro storie


«La mia vita è cambiata all’improvviso. Da un giorno all’altro mi sono trovato catapultato, senza alcun preavviso, in una nuovissima realtà, ad affrontare una patologia che, come sappiamo, non è ben conosciuta». Loris Lopetuso, laureato in Medicina all’Università Cattolica e dottore di ricerca, è dirigente medico della Unità operativa complessa di Medicina interna e gastroenterologia alla Fondazione Policlinico universitario A. Gemelli Irccs. Anche lui, come tanti medici, si è ritrovato in prima linea sul fronte del Covid-19.

«Quello che mi sono ritrovato a fare non è perfettamente attinente alla mia specialità» afferma: «Sono un gastroenterologo e, fino al giorno prima, avevo svolto attività endoscopica e ambulatoriale presso il Cemad, lavorando soprattutto con pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali (Mici). Mi sono, quindi, trovato ad affrontare una patologia nuova e anche un’organizzazione di reparto completamente inedita in cui era necessario prestare la massima attenzione a isolarsi, vestirsi, svestirsi, ogni volta; con una serie di misure a cui non ero abituato e che in passato non avevo vissuto».

Com’è cambiata la sua vita personale? «Sappiamo che questa pandemia ci ha costretto all'isolamento, a rimanere in casa, a non uscire se non per lavoro. Dal punto di vista personale, lavorare in un reparto Covid mi ha ulteriormente isolato, non potendo vedere la mia famiglia, non potendo vedere nessun altro se non i miei colleghi coinvolti in reparti analoghi, non potendo frequentare quegli ambienti ospedalieri “puliti” a cui ero abituato. Ciò ha fatto sì che il reparto in cui ho lavorato sia diventato la mia famiglia: i colleghi, gli infermieri, tutto il personale, gli stessi pazienti sono tutti diventati le sole persone con cui vivevo ogni giorno, una seconda famiglia che viveva le mie stesse sensazioni ed emozioni».

Come si è modificato l’approccio clinico-assistenziale nella Uoc di Medicina interna e gastroenterologia e, più in generale, al Policlinico Gemelli? «La nostra Unità ha seguito le direttive della Direzione sanitaria, pertanto, con il coordinamento del professor Antonio Gasbarrini, è stata ristrutturata completamente dal punto di vista organizzativo con la redistribuzione dei medici in vari reparti. Tra colleghi ci siamo divisi in più turni così da coprire l’intero orario di mattina, pomeriggio e notte. Il “giro visite” è completamente cambiato: se normalmente in un reparto è abitudine entrare nella stanza di un paziente in più colleghi e infermieri, l’isolamento di questi pazienti non lo permetteva. Potevano entrare in stanza un medico o un infermiere alla volta, seguendo regole ben precise di vestizione, svestizione e disinfezione, in modo da garantire il massimo dell’isolamento e da minimizzare il più possibile il rischio di contagio. Il collega che rimaneva all’esterno fungeva da supporto al medico all’interno della stanza».

È cambiato anche l’approccio clinico al paziente? «Sicuramente: è diventato ancor di più un approccio multidisciplinare, in cui diverse specialità (infettivologo, pneumologo, rianimatore e, all’occorrenza, altre specialità) si sono affiancate alla mia attività clinica da internista».

Qual è il ricordo che lei porterà con sé al termine di questa esperienza? «Il ricordo che porterò con me negli anni è quello di una situazione unica, incredibile, totalmente straordinaria, senza alcun precedente nella nostra storia. Stiamo vivendo una situazione assurda e inedita che, però, ci ha portato probabilmente a unirci ulteriormente come personale clinico, medico e infermieristico. Ci ha portato a sentirci veramente come un’unica famiglia, consapevoli di lavorare tutti verso un solo obiettivo, con un’unità di intenti straordinaria: gestire al massimo delle possibilità questa emergenza, a ogni livello, ognuno con le proprie competenze, salvare vite umane e garantire alle persone per le quali purtroppo non si poteva ottenere la guarigione, una fine di vita dignitosa».

Esiste una sensazione particolare di quei giorni? «Non dimenticherò mai la mia visiera, nel momento in cui entravo nella stanza dei pazienti, costantemente appannata perché con quelle mascherine era impossibile respirare e a un certo punto diventava molto difficile riuscire a vedere il paziente, parlargli. Era difficile entrare in sintonia quanto volevo a causa di una barriera fisica fra noi. Lo sguardo annebbiato, la mascherina inumidita dal respiro sono le sensazioni che ricorderò di più perché erano le cose che meno sopportavo e che rendevano il lavoro ancora più difficile».

Com’era il rapporto dei pazienti con i loro familiari e dei parenti dei malati con voi, medici e infermieri? «Le telefonate con i parenti sono state una delle cose più toccanti rispetto al passato: noi medici eravamo l’unico tramite con le famiglie che, pur avendo la possibilità di comunicare telefonicamente con i propri cari malati, non potevano parlare con loro "dal vivo” per cui ogni tipo di rapporto umano tra parenti e pazienti era garantito dalla nostra presenza. In questo senso le parole di ringraziamento dei familiari sono state una delle fonti di sostegno più importanti per la nostra attività. I parenti dei nostri malati sono stati davvero di grande incoraggiamento, in una situazione anche di paura per la mia salute e per quella dei miei colleghi, come a far parte anche loro della nostra particolare famiglia».

Al termine di questo suo personale impegno, qual è l’insegnamento più grande? «Sicuramente quello di capire, ancor di più, l’importanza e l’unicità del lavoro che facciamo. Si dice sempre che il nostro non è un lavoro come gli altri: questa esperienza mi ha fatto capire che è veramente così. Mi ha fatto sentire orgoglioso della mia scelta di diventare medico e ora mi fa sentire orgoglioso di quello che faccio tutti i giorni. Avere la possibilità di aiutare gli altri in una situazione così drammatica è qualcosa di unico. Così come lo è imparare a lavorare con gli altri e capire quanto sia importante un lavoro di squadra: questo è un ulteriore insegnamento che non dimenticherò mai».

Vuole lasciare un messaggio ai tanti ragazzi che ora, più di prima, aspirano a diventare medici e infermieri? «Anzitutto, un messaggio di monito: quello che probabilmente ci aspetta nei prossimi anni è una situazione purtroppo ancora simile a questa: un ragazzo che vuole studiare medicina o infermieristica deve essere pronto a questo e deve sapere che non è facile sacrificare la propria famiglia e gli affetti e metterli a rischio a causa del proprio lavoro: ciò richiede grande coraggio e motivazione e sicuramente una forte vocazione. Ma il nostro è davvero un lavoro unico che ci rende orgogliosi di ciò che si fa: un lavoro che serve ad aiutare le persone, ad aiutare il prossimo che soffre, e, molto di più in una condizione drammatica come quella che tutti stiamo vivendo, un lavoro fondamentale e indispensabile».


Sesto di una serie di articoli dedicati ai nostri medici in prima linea nella lotta al Coronavirus