di Federico Bellini *
Cesare Pavese, primo traduttore al mondo (ventiquattrenne!) di Moby-Dick, diceva che leggendolo “vi si allargano i polmoni, vi si magnifica il cervello, vi sentite più vivo e più uomo.” Il bicentenario della nascita di Herman Melville (1 agosto 1819) è una buona occasione per riprendere questo capolavoro. Nell'aprire il tomo alcuni saranno sorpresi dallo scoprire che il celebre “Call me Ishamel,” “Chiamatemi Ismaele,” forse il più decantato incipit della letteratura moderna, in realtà non è l'incipit del romanzo, che inizia invece con svariate pagine di citazioni a tema balene tratte dalla letteratura di tutti i tempi. La tentazione di saltarle per iniziare l'avventura sarà forte ma bisogna resistervi: è lì che Melville mostra, con un'audacia tutta americana, di volersi confrontare con l'intera tradizione occidentale, una tradizione che già allora si stava sgretolando. Melville ne raccoglie i frammenti non per puntellare, come farà un autocommiserativo T.S. Eliot, le proprie rovine, ma per costruire la zattera con cui prendere il largo. La caccia alla balena (whale) è infatti la caccia a un'idea del mondo come totalità (whole) che è ormai perduta ma nella cui ricerca si gioca la possibilità di un senso.
Al di sotto dell'allegoria la storia è quella, modernissima, di un ragazzo spiantato, irrequieto e malinconico che rifiuta una quotidianità inautentica e si mette in viaggio per scoprire il mondo e se stesso. La prima e più importante lezione sarà l'amicizia per Queequeg, il cannibale con cui condivide il letto in una pensione. Intimorito all'inizio dall'aspetto selvaggio, Ismaele decide poi che è “meglio dormire con un cannibale sobrio che con un cristiano ubriaco,” il primo passo verso la maturazione di un relativismo che non è appiattimento ma affettuosa condivisione delle diversità. I due si imbarcano insieme sul Pequod, baleniera-microcosmo in cui ogni cultura, religione e visione del mondo è rappresentata in un sincretismo globale.
Sul Pequod Ismaele impara la bellezza del lavoro in quanto partecipazione attiva alla costruzione di un mondo e luogo di confronto, e inevitabilmente di scontro, con la natura. Ecco allora i capitoli dedicati alla descrizione minuziosa e innamorata di ogni aspetto della caccia, del trattamento dello spermaceti, delle leggi, delle tecniche, degli strumenti fino a comporre un'enciclopedia di quella che era, all'epoca, una delle più fiorenti attività dell'economia americana. Lavorando si purifica dalla propensione alla fantasticheria malinconica e alla meditazione sterile e i sogni della sua mente incandescente di ragazzo non sono soffocati ma temprati nel grasso, nel sangue, nello sporco del reale e nella sua meraviglia. Divino e terreno, sublime e grottesco, grazia e abiezione sono infatti strati alternati della medesima realtà: in un cadavere di balena in putrefazione, abbandonato da una baleniera schizzinosa, i marinai scavano fino a tirar fuori, da dentro la polta marcescente, il profumo prezioso dell'ambra grigia.
Ma l'entusiasmo si corrompe facilmente in ossessione, la frustrazione in desiderio di vendetta ed è facile lasciarci trascinare nella direzione sbagliata da chi crede di avere la chiave di ogni cosa e di poter arpionare quell'assoluto che invece sfugge sempre all'orizzonte. Achab, il luciferino comandante, ammalia Ismaele e la ciurma e la trascina in un'impresa insensata e suicida. Ismaele sopravvivrà per raccontare la sua storia che è quella di noi moderni, sradicati dall'assoluto ma desiderosi di agguantare un senso.
* assegnista di ricerca, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, Università Cattolica