di Marta Grossi*
Il Brasile ti colpisce subito, appena atterri, appena apri gli occhi e scopri l’intensità del blu del suo cielo, del verde della sua terra; non appena cerchi di rincorrere il tuo stesso sguardo che corre nell’immensità dei suoi spazi dominati dalla natura selvatica.
Il Brasile ti rimane dentro, tra le pieghe dei sensi e dell’anima; il profumo intenso del cacao della Fazenda Valeria, il sapore del mango e del maracuja nel fondo della gola, il rumore della bicicletta sui ciottoli delle strade di Canavieiras.
È stato bello vivere tre settimane in Brasile. È stato importante, è stato reale. Mi sono sentita in contatto con una concretezza, una verità della contingenza, di cui perennemente sento la mancanza nel mio vivere quotidiano.
Canavieiras è una città povera e io ho scoperto di essere così lontana dalla miseria da non saperla nemmeno immaginare. Nelle zone periferiche della città ogni concetto di casa, famiglia, cura, mi è apparso scardinato, rivoltato dall’interno. Ho visto spazi circondati da mattoni, genitori ridotti a stanche presenze, occhi vacui e rassegnati, vite confinate nel presente, senza agganci con quel futuro che è invece per me orizzonte di ogni istante. Mi sono sentita lontana ma grata di poter semplicemente essere lì, in quel tempo-spazio di condivisione, d’incontro di persone, e mondi, e vite. Mi sono accorta dell’importanza del semplice esserci, del saper stare silenzioso e discreto.
Il Giardino degli Angeli è il fiore sbocciato in questo terreno che fatica a produrre i suoi frutti: dà nutrimento a chiunque vi si aggiri intorno, attirato dalle voci dei bambini che cantano le canzoni del mattino, dal sorriso di Regina che accoglie la vita, dal prato calpestato da decine di piedi giocosi, dalla potente risata di Alessandro.
Il tempo trascorso all’asilo e al doposcuola è stato un’esperienza di amore totale; amore dato e ricevuto, amore in circolo di cui tutti eravamo grati. I bambini che ho conosciuto, a cui mi sono affezionata, che continuo a pensare, e ricordare, ci domandavano con gesti, sguardi e parole, in quel portoghese che non conoscevamo, vicinanza. Ho trascorso intere giornate abbracciando i loro piccoli corpi e sorridendo ai loro visi affamati di attenzione e calma. Insieme a loro, io e le mie compagne di viaggio abbiamo vissuto per un po’ le nostre vite, entrando nei loro giochi, nelle loro classi, nella loro quotidianità, mettendoci in ginocchio al loro fianco, facendoci guidare dal loro tenerci per mano per orientarci in quel mondo straniero e complesso.
All’asilo, a Canavieiras, in Brasile, ci siamo tutti presi cura l’uno dell’altro, ci siamo tutti accolti con cuore aperto, con curiosità, con il desiderio semplice e autentico di esplorarci, conoscerci, non dimenticarci. All’asilo, a Canavieiras, in Brasile, ho sentito dentro di me il ritmo della terra che palpitava all’unisono con il battito dei tamburi della capoeira, mi sono lasciata trasportare dalle voci potenti che ne intonavano il canto, dalla fluidità dei corpi sani e belli che ballavano, e lottavano, e celebravano l’umano nel suo essere materia, spirito, tradizione e arte.
In Brasile tante cose non funzionano bene, e non c’è modo di non accorgersene; ma parallelamente, non è possibile non vedere la bellezza di una terra calda e sorridente, capace di far sentire lo straniero a casa. Non ho vissuto una vacanza da sogno, ma ho fatto esperienza di una vita vera, reale, in contatto con ciò che per me conta davvero: amore, relazione, natura, cultura.
Il mio viso pallido sulle infinite spiagge di Bahia ha cercato di prendere il colore della terra tanto quanto l’intera mia persona ha provato a colorarsi delle vite che ho incontrato, con cui mi sono mescolata condividendo tempi, e spazi, e emozioni.
In Brasile ho raccolto attimi, sensazioni, immagini, pensieri, che mi sono portata in Italia con me, per farne frutti; del Brasile sento ancora la mancanza, ogni giorno come il primo. Dal Brasile sono tornata con la serena certezza di voler continuare a partire all’esplorazione del mondo qualunque sia il modo che scelgo per farlo, sia esso il sedile di un aereo o la sedia di uno studio terapeutico, con la consapevolezza di non poter fare a meno di cercare un contatto reale con le persone, con la terra, con la vita, con il desiderio di non dimenticare l’intensità dei sorrisi che ho visto e vissuto, l’immensità dell’amore che ho costatato e sperimentato, con il progetto di tornare ancora, al più presto, a immergermi in quel mondo di voci, sguardi, colori e sensazioni.
* 24 anni, di Merate (Lc), secondo anno della laurea magistrale in Psicologia Clinica, facoltà di Psicologia Clinica, campus di Milano