Convegni, discorsi papali, due eventi nel giro di una settimana in Cattolica, un “motu proprio” pontificio sulla messa in latino e, addirittura, un sito web promosso da teologi e da cardinali. Nel bene e nel male, si è tornati a parlare di Concilio Vaticano II. Almeno tra le generazioni che l’hanno vissuto o tra chi nell’immediato post-concilio è cresciuto. Anche perché per i più giovani è troppo lontano per essere un ricordo e troppo vicino per essere studiato sui testi di storia. Eppure, da qualsiasi parte lo si guardi, resta un fatto storico e come tale va affrontato. Come ha cercato di fare il gesuita americano John O’Malley in un volume appena tradotto in italiano da Vita e Pensiero dal titolo Cosa è successo nel Concilio Vaticano II, un lavoro tra ricerca e divulgazione scientifica di alto livello, come ha fatto notare il professor Gianluca Potestà introducendo il convegno di presentazione del volume lo scorso 11 marzo.
Lo storico americano, almeno apparentemente, ha cercato di stare al di qua della polemica tra ermeneutica della rottura ed ermeneutica della riforma, cioè tra chi legge il Concilio come un normale momento di continuità nella storia della chiesa e chi lo legge come una svolta. Come pure della contrapposizione tra “testi” e “spirito” del Concilio. Lasciando ai giornali la semplificazione del Vaticano II come una lotta tra progressisti e conservatori, O’Malley ha tuttavia fatto notare che, negli ultimi quarant’anni, nessun teologo o storico autorevole ha sostenuto che il Concilio abbia interrotto la Tradizione della Chiesa: «Gli unici ad averlo fatto – ha affermato - sono i seguaci dell’arcivescovo Marcel Lefebvre, che considerano i cambiamenti introdotti dal Concilio tanto radicali da essere eretici, applicando loro in pieno la famigerata ermeneutica della rottura».
La questione dell’evoluzione della dottrina è uno dei punti incandescenti del Vaticano II. «I papi – rileva come esempio il gesuita della Georgetown University - avevano ripetutamente condannato la separazione tra Chiesa e Stato e ora il Concilio lo proponeva come legittimo sviluppo. Un colpo di mano». Come superare il problema? La grande maggioranza dei padri conciliari approvò l’introduzione di tre sinonimi soft di cambiamento: aggiornamento, sviluppo, ritorno alle fonti (ressourcement). Tre modi per dire che ogni evento passato, Concilio compreso, presenta sia continuità che discontinuità con ciò che lo precedeva. «Un evento radicale come la Rivoluzione francese – ha fatto notare il gesuita – non ha certo reso i francesi meno francesi: hanno continuato a parlare la stessa lingua, a mangiare gli stessi alimenti e a riconoscersi l’un l’altro come francesi. Per questo motivo si parla di una ermeneutica della riforma, una parola che dall’XI secolo è utilizzata dalla Chiesa per indicare un cambiamento nel contesto di un’identità continua».
Ecco perché è «sconcertante» per lo storico la teoria interpretativa del Concilio che contrappone continuità a discontinuità. Così come lo è la disputa tra chi lo considera l’anno zero nella storia della Chiesa e chi, all’opposto, lo ritiene un evento ecclesialmente nullo. Ma ciò non toglie che abbia prodotto un cambiamento, che per O’Malley si esprime soprattutto nello stile pastorale del Concilio. Dopo secoli di scomuniche giunte sino al Sinodo romano del 1960, considerato un’anteprima dell’assise conciliare, «il tratto più impressionante del Vaticano II è che i suoi documenti parlano in uno stile diverso da quello dei concili precedenti e questa caratteristica, purtroppo poco studiata, è forse la più significativa», ha fatto rilevare lo storico. Parole nuove di eguaglianza, di reciprocità, di interiorità, di cambiamento, di delega, esprimono un orientamento complessivo, una coerenza di valori e una prospettiva che differiscono sensibilmente dai concili precedenti. E fanno del Concilio un “evento linguistico” e, in questo senso, un unicum nella storia. Da comando a invito, da legge a ideale, da coercizione a coscienza, da monologo a dialogo, da governare a servire, da esclusione a inclusione, da ostilità ad amicizia: le parole del Concilio, i valori che esprimono, il genere epidittico, mutuato dai padri della Chiesa per suscitare l’ammirazione per un ideale più che per chiarire i concetti, esprimono uno stile che permea tutti i documenti con una notevole unità letteraria. «Ognuno di loro echeggia, specifica, qualifica o dilata temi, insegnamenti e valori che si trovano in altri documenti – spiega O’Malley -. In questo modo, attraverso un processo intertestuale, fa la sua apparizione un implicito ma potente profilo della Chiesa e del cristiano nel mondo moderno. Il riconoscimento del carattere intertestuale dei sedici documenti finali è perciò un passo essenziale nella costruzione di un’ermeneutica del Concilio che possiede sia un’unità coerente sia un’integrità inviolabile». In questo senso – ed è il colpo di scena finale del gesuita - si può legittimamente e utilmente parlare di “spirito del Vaticano II”. «La lettera e lo spirito del Vaticano II sono coerenti. Quando la lettera è propriamente esaminata – e con lettera intendo la forma e il vocabolario – la lettera rivela lo spirito. E nel fare ciò la lettera non mostra un’effervescenza momentanea ma orientamenti consistenti e verificabili». Se l’espressione “spirito del Concilio” non piace, concede O’Malley, si parli pure di orientamenti che trascendono determinazioni particolari dei documenti. Modi diversi, in fin dei conti, per dire una nuova via per discernere la relazione tra novità e Tradizione.