di Andrea Plebani *
Il varo dell’operazione “Primavera di Pace” nella giornata di ieri ha rappresentato l’ennesimo colpo di scena di un conflitto siriano che, a oltre otto anni dal suo avvio, continua a rimanere uno dei principali snodi dell’arco di crisi mediorientale. Per quanto Ankara avesse ampiamente sottolineato la propria insoddisfazione nei confronti del regime di cogestione delle aree settentrionali della Siria definito con Washington la scorsa estate e i preparativi per una vasta operazione militare lungo il confine fossero iniziati ormai da diversi mesi, la scelta di ritirare le forze speciali statunitensi da parte del nord-est siriano ha rappresentato l’ennesimo coup de théâtre dell’Amministrazione Trump. Per quanto ridotta, la presenza del contingente americano aveva contribuito a “congelare” la shatterbelt che contrapponeva due dei più importanti partner di Washington nell’area: lo storico alleato turco e le Forze Democratiche Siriane (SDF). Nella campagna militare ingaggiata contro il sedicente Stato Islamico (IS) queste ultime avevano giocato un ruolo determinante, tanto da spingere la Casa Bianca a mettere in secondo piano i forti legami esistenti tra alcune delle sue maggiori componenti (Unità di mobilitazione popolare – YPG – in primis) e il Partito Curdo dei Lavoratori (PKK), formazione considerata alla stregua di un gruppo terroristico sia in Turchia che negli Stati Uniti.
Direttamente legata alle operazioni militari che a partire dal 2016 avevano portato Ankara a controllare ampie aree del nord-ovest siriano, l’operazione lanciata dal Presidente Erdogan è considerata una minaccia esiziale alla sopravvivenza delle forze curdo-siriane e a quella della regione autonoma di Rojava. Non a caso la decisione statunitense di ritirare parte del proprio contingente dislocato in Siria è stata descritta dalla leadership delle SDF come una “pugnalata alla schiena”, mentre da più parti essa è stata interpretata come un vero e proprio tradimento nei confronti di un partner non più indispensabile – una posizione, questa, che, al di là delle conseguenze più immediate, rischia di lasciare strascichi profondi in una regione che rimane comunque centrale per gli Stati Uniti.
Eppure, molti sono gli interrogativi che circondano gli obiettivi ultimi di “Primavera di Pace”, così come i margini che Washington pare essere disposta a riconoscere all’alleato turco. Per quanto difficile da accettare da parte curdo-siriana, un controllo diretto su una “zona cuscinetto” posta immediatamente a ridosso del confine non sarebbe sufficiente a innescare le ritorsioni promesse da Trump in caso di violazione degli impegni assunti da Ankara. La proiezione dell’influenza turca sull’intero nord-est siriano, invece, avrebbe implicazioni ben diverse, non solo per Washington e le SDF, ma anche per Damasco e per i suoi maggiori alleati, Mosca e Teheran su tutti. Tutto questo senza considerare l’impatto che la crisi potrebbe avere sulla regione di Idlib (l’ultima area nelle mani dell’opposizione siriana che da mesi è al centro di serrate trattative tra Turchia, Russia e Iran) e sul destino di IS nell’area. Per quanto espulso fisicamente dalle sue ultime roccaforti, lo “Stato Islamico” continua a disporre di importanti capacità operative e rimane una minaccia tutt’altro che debellata, non foss’altro per la presenza nei centri detentivi e nei campi gestiti dalle SDF di migliaia di militanti e famiglie accusate di avere legami diretti con l’organizzazione.
* Ricercatore di Geopolitica alla facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica del Sacro Cuore