“Utopia” ha cinquecento anni. Per celebrare il romanzo dell’umanista inglese Thomas More il master in Ideazione e progettazione di eventi culturali (Mec) e il corso di laurea magistrale in Comunicazione per l’impresa, i media e le organizzazioni complesse (Cimo) dell’Ateneo hanno proposto nell’ambito di Bookcity 2016 una lettura ad alta voce del romanzo e una conferenza per accompagnare il pubblico nell’isola di Utopia: un luogo felice inesistente, che deriva dalle due parole del greco antico ou-topos e eu-topos.
Nella Libreria Vita e Pensiero, il viaggio comincia nella luce soffusa, tra pareti e scaffali di libri, con una musica etnica in sottofondo. Leggono Luca Monti, docente e coordinatore di Mec e Alme, Matilde Dondena, attrice e docente nel laboratorio Soft Skills in Azione; Laura Peja, ricercatrice di Discipline dello spettacolo; Valerio Moccia e Francesca Bonfanti, studenti ‘Cimers’ dell’Ateneo. Si parla di un luogo dove la proprietà privata non esiste, dove tutti dispongono di un lavoro che occupa solo sei ore della giornata e hanno il tempo di dedicarsi ai propri diletti. Un luogo dove l’avidità è sconosciuta, dove la famiglia ricopre un ruolo centrale, mai a discapito della collettività. Un posto dove le leggi sono poche e comprensibili per tutti, dove è presente una profonda tolleranza religiosa e tutti concorrono a un’esistenza pacifica il cui fine è il benessere comune. Il pubblico è condotto nel cuore dell’isola, impara a conoscerla, ed è invitato a prenderne parte fisicamente con un brindisi collettivo durante la lettura, in un momento di condivisione durante il quale viene servito un tè, che riproduce il sapore di una tipica bevanda utopiana.
La sensazione è quella di trovarsi di fronte a un mondo immaginario, difficilmente replicabile nella reale società, su cui di sono confrontati cinque docenti dell’Università Cattolica.
Silvano Petrosino parla di utopia e filosofia. L’uomo esiste in due dimensioni: nel Qui, ovvero nel suo corpo e nella sua emotività, e nel Là, ovvero nella sua memoria, nei suoi sogni, nella sua immaginazione. L’utopia è sempre frutto di una finzione, in quanto, per immaginarla, bisogna necessariamente partire dal Qui e rischia quindi di essere una dimensione in realtà conservatrice, portandosi dietro le tracce del presente, e non innovativa. Si tratta quindi non di liberare l’immaginazione, ma di liberarsi dall’immaginazione. L’utopia presuppone inoltre un uomo che aspiri al bene e che incontri il male solo accidentalmente, ma la natura umana non è così.
Marco Rizzi interviene sulla “storia”. Il romanzo di More rappresenta l’ultimo sussulto del tentativo umanistico di progettare una società ideale prima delle guerre religiose del XVII secolo. Per More, Utopia non è solo il frutto del suo immaginare una società ideale, ma una vera e propria denuncia delle società europee a lui contemporanee. Denuncia il proliferare di culti e immagini, attaccato anche da Lutero, e la proprietà terriera a discapito dei contadini, vittime di fenomeni di vagabondaggio successivi allo sfratto dalle loro terre. More propone una soluzione che individua la propria chiave nella razionalità, ma l’Europa dell’epoca non era in grado di comprendere e assimilare questo messaggio.
Francesco Tedeschi interviene sull’utopia e l’arte, passando attraverso la geografia: l’utopia è un luogo comune tra queste due discipline, in quanto l’utopia è dentro la geografia, nella sua rappresentazione cartografica simbolica, mentre l’arte la racconta e mostra il rapporto degli artisti con il territorio. Per spiegare il passaggio dall’artistico al geografico e viceversa, ci propone una “ricetta per il libro”: i libri sono fatti di libri, si appellano ad essi per acquisire conoscenza e per poi comunicarla. Attraverso una carrellata di immagini di copertine, il docente ci mostra infine il frutto della sua ricetta: il volume “Il mondo ridisegnato”.
Giuseppe Lupo prende la parola parlando letteratura. Secondo Lupo c’è uno scrittore italiano tipicamente utopistico: Elio Vittorini. Nel suo romanzo “Le donne di Messina” del 1949, l’autore siciliano ci trasporta in un villaggio utopico sull’Appennino Tosco-Emiliano, una realtà chiusa e autosufficiente. Vittorini si accorge ben presto che questa realtà è solo apparentemente utopica: questo villaggio è in realtà arretrato a causa del suo isolamento, che lo tiene al di fuori del progresso della società moderna. Quella di Vittorini è quindi una denuncia della pericolosità delle utopie, che rischiano di diventare dei regimi totalitari se raggiungono la loro forma più estrema, finendo per diventare distopie.
Alberto Campo, critico e operatore musicale, direttore e curatore di festival, racconta l’utopia in relazione alla musica rock. L’Utopia non assume più la forma di un luogo, ma di un sogno. Il sogno è quello della controcultura giovanile, dei moti pacifisti che dal 1963, con la Guerra del Vietnam, danno voce ad un conflitto generazionale che denuncia il potere dello Stato e del capitalismo Americano. I giovani in quegli anni rivestivano la natura duplice di problema, in quanto antagonisti del potere costituito, e di risorsa, come alimentatori del mercato della musica. Fu proprio questa duplicità a mettere in evidenza la natura contraddittoria del movimento giovanile. Anche in questo caso l’utopia diventa distopia, e muore il mito della generazione che doveva cambiare il mondo: la gioventù è transitoria e questo non le permette di essere controcultura, perché fallisce nel momento in cui cade nei medesimi errori dell’età adulta che prima denunciava.
Claudio Bernardi invita a riflettere su una possibile chiave per trovare un’utopia: sta nell’equilibrio tra le due facce della natura umana, logos ed eros. Il logos è la razionalità, la testa, il governo. L’eros è il dionisiaco, il luogo dei desideri che, quando si scontrano, sfociano necessariamente nella violenza. È necessario individuare una modalità di comunicazione collettiva, utilizzando gli strumenti della razionalità per soddisfare i bisogni e i desideri degli uomini.
Cinquecento anni dopo la pubblicazione dell’Utopia di Thomas More, questa realtà ideale è ancora di là da venire. Sarebbe il caso di sfruttare i cinque secoli in più di conoscenza che l’Europa ha accumulato, almeno per migliorare ogni giorno i tanti mondi possibili dove perseguire il benessere comune.