di Federica Ruscitti *


«Non ti bruciano gli occhi?». È stata la prima cosa che ho chiesto alla mia compagna di viaggio durante il tragitto in macchina per raggiungere il Benedict Medical Centre di Kampala, dove ho svolto il mio Charity Work Program. Non era la stanchezza per le 24 ore di viaggio, ma la polvere.

Frammista allo smog del traffico di Kampala ho respirato la polvere di terra rossa, quella stessa terra che aveva assistito agli albori della civiltà umana e che ora, depositandosi sui nostri vestiti e impregnando le nostre scarpe, richiamava prepotentemente l’attenzione su di sé. Guardando e respirando quella terra mi sarei resa conto, nei giorni a venire, che mi trovavo in un luogo che mi apparteneva, o, meglio, cui io appartenevo più di quanto pensassi.

Proprio in quel mondo, che dal difuori sembra così lontano nel tempo e nello spazio e che la nostra presunzione di essere “civilizzati” ci farebbe definire arretrato, risiedono le nostre radici e sarebbe stato lì che avrei riscoperto una delle cose più preziose: l’autenticità. Tutto quello che ho visto e sentito, dai paesaggi naturali alle costruzioni, dagli occhi delle persone ai loro discorsi, è incredibilmente autentico.

L’Uganda non si sforza di apparire diversa da com’è e le persone non tentano di nascondere dietro il velo dell’ipocrisia e del perbenismo, a noi ben noti, la loro reale situazione, le loro ambizioni e aspettative, ma anche le loro preoccupazioni e debolezze. Paradossalmente una capacità estrema di sopportazione del dolore fisico si accompagna a una profonda esigenza di mettere a nudo i propri disagi personali e sociali.

La forza di questo bisogno è prorompente, al punto di indurre un padre di famiglia a chiedere a due ragazze come noi, mai incontrate prima, di adottare due dei suoi figli e portarli in Italia. Più volte mi sono interrogata sulla mancanza di inibizioni nelle parole e negli atteggiamenti della gente che ho incontrato, sul fatto che ai bambini non si insegni ad avere vergogna e diffidenza nei confronti degli sconosciuti e, puntualmente, ho dovuto ammettere che è la nostra cortesia formale che rappresenta un limite alla comunicazione.

L’ambito dei rapporti umani non è stato l’unico in cui, per indagare quelli che ritenevo difetti altrui, ho scoperto i limiti del nostro modo di agire, di pensare e di intendere il proprio ruolo. Ne è un esempio lampante la figura del medico, da noi ormai iperspecializzata e dotata di conoscenze dettagliatissime nel proprio campo, ma spesso carente in manualità e competenze che non siano strettamente legate alla sua routine ambulatoriale.

In Uganda ho avuto occasione di conoscere medici in grado di spaziare dalla clinica alla chirurgia, di gestire tanto pazienti pediatrici quanto anziani, tanto emergenze quanto condizioni croniche. Ricordano un po’ quello che una volta rappresentava il medico di famiglia, un vero punto di riferimento a cui rivolgersi per qualunque problema, una persona in cui riporre tutta la propria fiducia.

È questa l’essenza della professione medica: l’essere in grado di fronteggiare la situazioni più diverse e, soprattutto, l’essere sempre disponibili. È strano pensare che vi siano realtà in cui non esiste la frenesia di “timbrare il cartellino”, di rincorrere disperatamente le lancette dell’orologio. Forse il tempo non è così importante come ci hanno insegnato a pensare, o, meglio, ciò che lo rende importante è il fine a cui viene dedicato e non c’è miglior fine della vicinanza a una persona che soffre.

In Africa il tempo scorre lento, ma, come sempre, è inesorabile e, purtroppo, è già ora di ripartire: pronta ad accoglierci c’è una pletora di sorrisi e di intense e prolungate strette di mano che sembrano quasi carezze. Siamo state qui solo tre settimane, eppure la gente ha ritenuto così importante la nostra visita, al punto di non poter evitare di porci sempre la stessa domanda: “When will you come back?”. È come se tutti dessero per scontato che un giorno o l’altro torneremo e il modo insistente con cui reclamano la nostra presenza mi ha fatta interrogare su cosa davvero si aspettino da noi.

Con un po’ di amarezza ho riscontrato che ai loro occhi l’uomo bianco rappresenta una potenziale fonte di aiuti materiali. Tuttavia, a ben pensarci, il nostro denaro, le nostre medicine e le nostre attrezzature possono solo saziare temporaneamente la loro fame di istruzione. Anche se è difficile per loro rendersi conto dell’esigenza di ampliare i propri orizzonti culturali, la Storia ha sempre insegnato che, laddove ci siano menti aperte al dialogo, lo sviluppo del loro Paese procederà di conseguenza. Trovandomi in prima persona a lottare contro lo stereotipo dell’”uomo bianco che viene ad aiutare”, ho compreso l’importanza di garantire l’istruzione in questi Paesi, perché non si cresce con qualcuno che di volta in volta risolve i problemi, ma solo con qualcuno che insegna a risolverli.

* 21 anni, di San Salvo (Ch), terzo anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma