di Alice Zucconi *
Il mio viaggio in Africa è giunto al termine: tre settimane dense di insegnamenti, di scoperte, ma soprattutto di emozioni. Un vortice di suoni, voci, colori, odori, visi, sguardi, che all’inizio sembrava travolgermi, e che adesso riaffiora alla memoria cercando di trovare il suo posto nella vita di ogni giorno.
Ripenso ai canti e alle preghiere che scandivano le nostre giornate: quelli gioiosi dei ragazzi della scuola della missione di padre John, proprio accanto all’ospedale, che all’alba arrivavano alle finestre della nostra camera, e quelli altrettanto gioiosi degli infermieri, che auguravano “Good morning Jesus! Good morning Lord!” e chiedevano aiuto e forza per affrontare un nuovo giorno in ospedale, vivendo il loro mestiere come una vocazione.
Non potrò mai dimenticare l’emozione provata davanti a ogni nuova nascita, alla vista degli occhi dei neonati che per la prima volta si spalancavano sul mondo e all’ascolto del loro primo pianto che riempiva le stanze e i corridoi del Benedict Medical Center. Né scorderò mai l’inspiegabile sensazione del tenere per la prima volta tra le braccia un bimbo appena nato e visitarlo seguendo le indicazioni della dottoressa Betty, la giovane ma espertissima ginecologa del Benedict.
Non potrò mai scordare i sorrisi dei bambini che giocavano scalzi sulla terra rossa e non appena ci vedevano arrivare si sbracciavano per salutarci e ci venivano incontro urlando: “Muzungu! Muzungu!” (uomo bianco); né dimenticherò quelli dei pazienti e dei loro familiari, per i quali anche solo qualche minuto in più di attenzione al nostro rientro dalla cena significava tantissimo. I loro sorrisi mi hanno riempito di gioia.
Nel mio cuore però è rimasto anche tanto altro, tanti racconti e storie su una terra piena di contraddizioni: ricca e tremendamente povera, piena di gioia ma anche di sofferenza. Questa infatti è solo una faccia della medaglia, o meglio solo una delle mille sfaccettature della realtà africana, che piano piano in queste tre settimane di Charity Work Program in Uganda ho imparato a conoscere. Una realtà fatta di paesaggi mozzafiato e ricchezze naturali, di usanze e tradizioni, ma anche e soprattutto di storia, che spesso non viene raccontata come dovrebbe, di povertà, di sofferenza, che ho avuto modo di conoscere grazie ai racconti di ragazzi e ragazze della tribù Acholi, una delle popolazioni più segnate dagli orrori della guerra civile che solo fino a pochi anni fa devastava il Paese.
La mia gratitudine va a tutti loro, ai medici e agli infermieri locali, ai ragazzi studenti di medicina, la grande famiglia con cui ho condiviso questa meravigliosa esperienza e dai quali ho imparato molto. Perché l’Africa è stata proprio questo per me: casa, famiglia e calore ma anche maestra di consapevolezza, uno scossone che mi ha fatto aprire gli occhi e che mi ha aiutata a comprendere e a vivere la realtà dell’Uganda.
* 21 anni, di Segrate (Milano), quarto anno della laurea in Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma