di Mario Gatti *
Per motivi professionali ho spesso modo di interfacciarmi sia con giovani in cerca di lavoro sia con aziende ed enti che hanno bisogno di selezionare risorse umane. E la prima osservazione che mi sento di fare è che il lavoro in sé è cambiato.
Quello tradizionalmente inteso risponde sempre meno alle richieste del mercato; le società di consulenza hanno cambiato la modalità di reclutamento delle risorse e l’irrompere del digitale su vasta scala ha trasformato i processi lavorativi (e anche formativi). I giovani si trovano a lavorare con colleghi che hanno una cultura digitale tendenzialmente bassa e questo talvolta genera difficoltà a rapportarsi e a comprendersi. In alcune aree metropolitane del nostro Paese il lavoro è associato alla visibilità e al ruolo sociale e tende a coincidere con la sfera in cui la persona cerca la propria realizzazione.
Stanno cambiando il contesto e le circostanze lavorative: non è più scontato avere una propria scrivania con un computer fisso. Si lavora con smartphone da casa, dal treno, dal mare e nel weekend. In molti casi viene meno la “fisionomia” del luogo di lavoro. Come incidono tali cambiamenti sui rapporti tra colleghi o con clienti o utenti? Ciò che è certo è che tali trasformazioni stanno modificando radicalmente il rapporto tra il lavoro e le relazioni umane.
Solo un piccolo esempio che ben sintetizza la dicotomia quasi surreale a cui assistiamo: da un lato in Francia con l’articolo 55 della Loi Travail (entrata in vigore il 1 gennaio 2017) è stato introdotto il “diritto alla disconnessione”: le aziende sopra i 50 dipendenti devono fissare tramite accordi interni e con i sindacati “tempi e modi per essere offline”; dall’altro nella stragrande maggioranza dei lavori si assiste a una sempre più frequente iperconnessione, tanto che è difficile separare con una linea definita il tempo del lavoro dal tempo libero. Si lavora – o si potrebbe lavorare – praticamente sempre e ovunque.
In secondo luogo, nell’ultimo decennio c’è stato un cambiamento enorme anche nel rapporto tra i giovani e il lavoro. Che idea hanno del lavoro? Desiderano ancora lavorare nelle cosiddette aziende tradizionali? Qual è, invece, la concezione dei manager e degli imprenditori? Le aziende sono “open” per i giovani? Quali i requisiti e le competenze imprescindibili oggigiorno? Ha ancora senso parlare di competenze tecniche o verticali?
Di recente a una conferenza all’Università di Malmö, Troed Troedson, uno svedese che da più di 20 anni è a capo di una società di consulenza faceva notare come solo qualche decennio fa l’istruzione fosse un fattore decisivo per essere competitivi sul mercato del lavoro, mentre oggi è normale essere “well educated”. Cosa dobbiamo aspettarci? Troedson parlava dell’avvento di un nuovo paradigma: il passaggio dalla tradizione all’innovazione. Se le parole chiave del mercato del lavoro tradizionale erano “conoscenza”, “specializzazione”, “verità oggettiva” e “pianificazione a lungo termine”, il nuovo paradigma del lavoro innovativo è caratterizzato da “comprensione”, “complessità”, “valori propri del soggetto” e “flessibilità”. Dopo aver verificato queste affermazioni, occorrerebbe intervenire sui modelli formativi.
In un contesto così modificato come si colloca l’università, considerando che il mercato del lavoro è pieno di contraddizioni e dati contrastanti? Forse superando quella confusione di ruoli a cui abbiamo assistito negli ultimi anni tra Atenei e mondo del lavoro, in cui si chiedeva all’istituzione formativa di “insegnare” la “professionalità” ai propri studenti. Oggi le aziende cercano giovani capaci di innovazione, agili, dotati di problem solving e sempre meno selezionano solo tecnici.
Che contributo può dare l’Università? Deve tornare a fare educazione nel senso più ampio del termine, insegnando ai giovani a scoprire il nesso tra il particolare e l’universale. Questo farà sì che i nostri laureati siano veramente smart e dotati di un solido bagaglio culturale e valoriale che permetta loro di entrare nel mondo del lavoro non solo ricchi di competenze verticali ma con la capacità di osservare e inserirsi in questo cambio d’epoca. Mai come oggi la parabola dei talenti assume un valore universale come atteggiamento umano per affrontare uno dei fondamentali aspetti del vivere umano.
* direttore Area ricerca e sviluppo, Università Cattolica