Continua il dibattito aperto dall’articolo dal titolo “Arrivano i robot”, dedicato a come l’intelligenza artificiale sta cambiando noi e il nostro modo di vivere e di pensare
di Fausto Colombo *
Per gli studiosi di media, l’avvento dell’intelligenza artificiale e dei robot costituisce una profonda messa in questione dell’oggetto stesso della loro disciplina.
Per la verità, questa problematizzazione è cominciata da qualche decennio, con l’irruzione della digitalizzazione e la conseguente convergenza fra i vari mezzi di comunicazione, che li ha resi sempre meno distinguibili gli uni dagli altri. Ora però si osserva un’accelerazione, come se i media fossero soggetti a un nuovo slancio trasformativo, che richiede nuovi approcci e pone nuovi interrogativi.
Cominciamo dall’I.A., nella versione degli algoritmi che governano i motori di ricerca (a cominciare da Google) e le piattaforme (da Facebook e Instagram a Youtube, fino a Amazon o Spotify). Questi sofisticatissimi software svolgono continuamente analisi sul comportamento degli utenti, accorpano i dati che questi seminano (navigando, facendo ricerche per curiosità o bisogno, comprando o informandosi), li aggregano in profili sempre più definiti e spesso sono in grado di proporre a ciascun utente un contenuto adeguato alle sue esigenze, per come sono state monitorate e misurate.
Questo modello di funzionamento costituisce un cambiamento piuttosto radicale rispetto al marketing tradizionale, perché spesso automatizza alcuni passaggi tradizionalmente affidati all’operatore umano. Un buon esempio è costituito dal fatto che sempre più, nell’accordo fra un’agenzia di comunicazione che vuole pianificare una campagna pubblicitaria per un proprio cliente e le aziende di servizio che si occupano di acquistare gli spazi sui vari media secondo le esigenze della campagna, sono gli algoritmi a dialogare fra loro: quello dell’agenzia individua i migliori target da raggiungere per ottimizzare l’efficacia della pubblicità, e quello dell’azienda di servizio “legge” i vari target dei differenti media in modo da farli coincidere con le esigenze del cliente.
Un altro fenomeno tipico della trasformazione attuale dei media consiste nel fatto che alcune piattaforme televisive, come Netflix o Prime Video suggeriscono al loro abbonato titoli della propria offerta basandosi sui prodotti già visti (proprio come fa Amazon nel suggerire un libro, o Booking nel proporre un hotel). Per fare questo gli algoritmi scompongono i vari prodotti (serie televisive, film, documentari…) in generi e sottogeneri di appartenenza, trame, interpreti, episodi, ambientazioni e così via. Via via che l’abbonato sceglie, magari anche facendosi influenzare dai consigli della piattaforma, la lettura che l’algoritmo compie dei suoi gusti diventa più precisa. Non è un mistero che si stia lavorando a trasformare questa macchina di osservazione e programmazione in un servizio a chi le serie e i film li deve scrivere e produrre, così da ridurre i rischi di insuccesso da un lato, e di soddisfare sempre meglio i gusti dei vari target, sempre più complessi e articolati, dall’altro.
Se tuttavia si capiscono bene i vantaggi per le aziende che producono contenuti o semplicemente offrono servizi e aggregano i dati degli utenti, meno chiari sono i rischi che procedure di questo tipo generano per gli utenti. Per capire questo punto vale la pena di trasferirci dal mondo della pubblicità e della finzione a quello dell’informazione. Qui diventa subito chiaro che – se gli algoritmi di un social network aggregano le notizie che segnalano a un utente in base ai suoi orientamenti - il pericolo è che questo utente si venga a trovare in quella che viene definita una filter bubble, ossia una bolla dove gli viene mostrato solo ciò che gli fa piacere vedere o sapere. Il che significa che le convinzioni verranno solo rafforzate, mai messe in discussione, e che utenti diversi avranno rappresentazioni completamente differenti della realtà. Insomma, in ambito simbolico un vestito confezionato su misura non ha sempre soltanto aspetti positivi, anzi può averne di problematici o addirittura di pericolosi.
Veniamo ora all’altro nuovo trend di trasformazione dei media. Se il robot è una macchina che aiuta o sostituisce l’uomo nel compimento di azioni, non vi è dubbio che alcuni media a noi congeniali si vanno robotizzando, e altri allo stato nascente assomigliano a robot. Due esempi su tutti. Il primo è costituito dall’uso di interfacce vocali per comandare la Tv o i servizi televisivi. Il nuovo Sky Q per esempio consente di “ordinare” verbalmente al televisore, tramite il decoder, di selezionare un certo programma e riprodurlo. Questa interazione con la televisione si differenzia da quella tradizionale via telecomando perché più “naturale”, più simile insomma a quella interpersonale. Potremmo dire che lentamente il nostro impianto televisivo assume una forma più umana, perché l’interazione assume sempre più la forma della conversazione.
Il discorso si applica, a maggior ragione, ai cosiddetti smart speakers come quelli di Amazon o di Google. Questi apparecchi sono collegati alle piattaforme delle loro case madri e, attivandosi quando “li chiamiamo per nome” sono a nostra disposizione per fare ricerche, programmare musica, acquistare prodotti, far funzionare parti telematiche della casa, ricordare scadenze o… raccontare barzellette. Questi assistenti non soltanto capiscono le nostre parole, ma si rivolgono a noi in linguaggio naturale, permettendo una “conversazione” semplice ma piuttosto facile e piacevole, almeno a un primo livello. È piuttosto evidente che queste apparecchiature, o la loro evoluzione, consentono alcuni passi avanti decisivi per esempio per persone con difficoltà motorie, o di vista, e che comunque facilitano alcune operazioni di vita quotidiana. Tuttavia, anche in questo caso, il fatto che gli smart speakers ci ascoltino, e trasmettano le nostre parole alle piattaforme cui appartengono fornendo ulteriori dati su di noi, sulle nostre azioni e le nostre preferenze, comporta alcune conseguenze ancora non completamente chiare.
Due semplici conclusioni possono essere tratte da questa prima ricognizione: la prima è che sono già nati sistemi ibridi fra media, robot e intelligenza artificiale, che vanno modificando la tradizionale definizione di mezzi di comunicazione. Potremmo chiamarli media-macchine, e osservare il loro sviluppo sarà probabilmente il compito più importante della media research nei prossimi anni. La seconda è che le media-macchine nascono all’insegna di un progresso che presenta da subito alcuni lati oscuri, che toccherà alla politica seguire con attenzione e normare a protezione degli utenti, e dell’interesse comune.
* docente di Teoria della comunicazione e dei media, facoltà di Scienze politiche e sociali, e direttore del dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo
Dodicesimo articolo di una serie dedicata a come l’intelligenza artificiale ci sta cambiando