Con questo articolo continuiamo il dibattito aperto dall’articolo dal titolo “Arrivano i robot”, dedicato a come l’intelligenza artificiale sta cambiando noi e il nostro modo di vivere e di pensare
di Ciro De Florio *
Circa settanta anni fa, un gentile, malinconico e geniale matematico pubblica su Mind (la rivista delle riviste di filosofia) un articolo dal titolo forse non così accattivante: Computing Machinery and Intelligence. Ma si riprende subito, iniziando con la domanda: Can machines think? Le macchine sono in grado di pensare? Se nel primo decennio di questo millennio eravamo ancora nel cosiddetto AI Winter (una condizione di scarsi finanziamenti e quindi scarse ricerche nel campo dell’Intelligenza Artificiale), possiamo dire di essere ora nel bel mezzo di una torrida estate: non c’è quotidiano, notizia, post, tweet, intervento che non citi le meraviglie dell’Intelligenza Artificiale. Già, ma allora le macchine possono pensare? E se la risposta di principio fosse un sì, quando accadrà? E, ancora più crucialmente, che cosa succederà allora?
Turing, che era uomo di scienza, elaborò una procedura -- il celeberrimo test -- per stabilire se una macchina pensa oppure no. Come molti sapranno è un test basato su competenze verbali e su presupposti di tipo funzionalista. Oceani di inchiostro sono stati versati nel commentarne la cogenza: i filosofi risultano spesso scettici; gli ingegneri di AI molto più ottimisti. Se il superamento del test -- nella sua forma originale -- è un traguardo ancora lontano, su YouTube potete, però, ascoltare una registrazione di una telefonata in cui una cliente prende appuntamento per un taglio di capelli. Niente di che, se non che una delle due parlanti non è umana (esercizio: cercate di capire chi è). E del resto il più grande campione di Jeopardy! (un gioco a premi che si basa su competenze linguistiche avanzate) è proprio un software di IBM.
Si potrebbe andare avanti all’infinito. Forse però la prima grande domanda che dovremmo porci è: saremo in grado di riconoscere che qualcosa pensi in maniera radicalmente diversa da come lo facciamo noi? Immaginiamo -- per riprendere un vecchio esempio -- che tutti i volatili (dalle aquile ai pipistrelli alle libellule) si riuniscano per stabilire se gli aerei (diavolerie degli ultimi anni) davvero volino. Non sbattono le ali, sono fatti di metallo, ingurgitano tonnellate di cherosene. Suvvia, al massimo simulano il volo. E analogamente, il modo in cui gioca AlphaGo o un programma di scacchi è diverso dal nostro. Ma in base a quale criterio -- verrebbe da dire, diritto -- noi ascriviamo la patente di autenticità a un giocatore di scacchi e a un altro (combinazione non umano) no?
Se le frontiere dell’interazione logica, simbolica e linguistica sono abbattute ogni mese dai progressi dell’AI, lo scettico può sempre far marcia indietro e arroccarsi nel misterioso tempio della coscienza: non importa quanto perfetti siano i nostri computer, essi non avranno mai coscienza. E illustri filosofi hanno tentato di produrre argomenti convincenti per dimostrare che si tratta di una limitazione di principio e non solo di fatto. Un computer è “semanticamente” cieco, direbbe John Searle, l’inventore della stanza cinese. Così come far corrispondere meccanicamente ideogrammi cinesi in maniera corretta (grazie a un portentoso vocabolario) non è sapere il cinese, così i computer non pensano, non sentono, non deliberano: computano.
Ma anche qui, le domande sono più grandi della nostra capacità di immaginarci le risposte: in fondo, della vostra coscienza, non ho che indizi sparsi. Non posso provare le vostre sensazioni gustative mentre vi concedete un gelato alla fragola. Un po’ più tecnicamente, il mio accesso alla vostra coscienza si gioca in terza persona. E quindi, l’ultimo soggettivissimo baluardo è che a noi non sembra di essere delle macchine. E alle macchine del 23esimo secolo sembrerà di essere delle macchine? Quando porremo loro la domanda fondamentale, che cosa risponderanno?
Riecheggia la sinistra profezia di Isaac Asimov, che anticipa di alcuni decenni i discorsi sulla Singolarità: quando venne acceso Multivac, il primo supercomputer senziente, gli venne chiesto se esistesse Dio. La risposta fu raggelante: “Adesso sì”.
E però, niente come il variegato tema dell’AI ci costringe a pensare il futuro; niente come lA proietta il destino dell’uomo, dei suoi valori, delle sue sfide oltre l’immanente emergenza quotidiana. Forse è proprio questo il ruolo che la riflessione filosofica deve assumersi nei confronti dell’innovazione tecnologica: interrogare tutti i possibili futuri per costruirne uno di attuale. E, si spera, migliore.
* Docente di Logica presso la Facoltà di Lettere e filosofia
Quinto articolo di una serie dedicata a come l’intelligenza artificiale ci sta cambiando. Nei prossimi giorni sarà pubblicato il contributo di Mario Agostino Maggioni, docente di Economia dell’innovazione nella facoltà di Scienze politiche e sociali