Continua il dibattito aperto dall’articolo dal titolo “Arrivano i robot”, dedicato a come l’intelligenza artificiale sta cambiando noi e il nostro modo di vivere e di pensare
Di Giovanna Mascheroni *
L’interazione bambino-robot è stata, fino a tempi recenti, dominio esclusivo della psicologia evolutiva o della psicologia della comunicazione. Negli ultimi anni, tuttavia, parallelamente all’emergere di un ripensamento della Human-Machine Communication fra gli studiosi di media studies e comunicazione, il tema della relazione bambino-robot ha acquisito rilevanza anche in una prospettiva di sociologia dei media. Il focus, in questo caso, si sposta dall’analisi del processo – o, meglio dei processi, cognitivi, percettivi e emotivi – che si innescano quando una persona si relaziona a un robot, allo studio dei significati, degli immaginari e delle pratiche, sempre situate in un contesto, attraverso cui i bambini danno senso ai robot nella vita quotidiana. Si tratta, in altre parole, di comprendere come i robot vengono ‘addomesticati’ nel contesto domestico, vale a dire appropriati, adattati alle routine quotidiane e resi significativi dai bambini in interazione con il contesto famigliare e con gli stessi robot.
Nella prospettiva della Human-Machine Communication, infatti, l’interazione bambino-robot viene intesa come una forma di comunicazione, all’interno della quale i robot, in quanto media, entrano in una relazione comunicativa non semplicemente in funzione di canali comunicativi, ma come comunic-attori. Lo studio dell’interazione umano-robot si sposta quindi sui significati che vengono co-costruiti dagli umani e dalle macchine quando sono in relazione reciproca.
Dal punto di vista metodologico, l’approccio ai robot come media si caratterizza per l’osservazione delle pratiche in un contesto naturale, come il contesto domestico, anziché sperimentale. È questo l’approccio che ha orientato uno studio comparativo finanziato dall’Australian Research Council e condotto contemporaneamente in quattro paesi: Australia, Belgio, Gran Bretagna e Italia. La ricerca è stata finanziata dal Governo Australiano attraverso il programma di finanziamento Discovery Projects dell’Australian Research Council (Project: DP180103922). In Italia la ricerca è stata condotta da me insieme a Lorenzo Zaffaroni e Michela Seresini. In Australia, invece, è stata realizzata da Donell Holloway e Lelia Green, in Gran Bretagna da Jackie Marsh e in Belgio da Bieke Zaman.
Lo studio si fonda su una metodologia qualitativa child-centred e sul coinvolgimento dei genitori in qualità di co-ricercatori, a cui è stato richiesto di filmare le interazioni dei bambini con Cozmo nell’intervallo fra le due visite famigliari (4-6 settimane). Cozmo è un piccolo robot-giocattolo con caratteristiche umanoidi (occhi e voce) programmabile da app. La app permette ai bambini di guidare l’interazione con Cozmo sia attraverso una serie di attività pre-programmate (giochi e performance, attraverso cui Cozmo simula un essere umano o un animale), sia attraverso il coding di sequenze di attività e performance con il Code Lab.
Cozmo è costruito materialmente e discorsivamente (nella rappresentazione discorsiva sul sito) come un robot sociale, cioè capace di interagire con gli esseri umani su un piano emotivo. Fra i bambini partecipanti alla ricerca, infatti, Cozmo ha suscitato empatia e simpatia, come se fosse “il cucciolo di casa”: le attività preferite dei bambini erano proprio le attività di cura, cioè dare da mangiare al robot, coccolarlo, ecc. La dimensione sociale della robotica umanoide che Cozmo incarna, però, genera anche aspettative rispetto all’interazione bambino-robot che Cozmo spesso disattende. Quando l’interazione si inceppa per qualche motivo, tuttavia, i bambini e i loro genitori tendono ad attribuirsi la responsabilità di tali fallimenti, anziché identificarne la causa nei limiti tecnologici di Cozmo. Ad esempio, quando il riconoscimento facciale non funziona e Cozmo non si rivolge al bambino chiamandolo per nome, il bambino si chiede se sia perché ha cambiato pettinatura o montatura degli occhiali rispetto al momento in cui è stato eseguito il primo scan facciale. Gli immaginari mediali sulla robotica umanoide concorrono, quindi, implicitamente a rafforzare la convinzione di un robot potente a fronte di un umano che deve ancora imparare a interagire con le macchine senzienti.
* Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica
Undicesimo articolo di una serie dedicata a come l’intelligenza artificiale ci sta cambiando