di Antonella Marchetti *
La nostra vita quotidiana ci vede da qualche tempo in crescente interazione con una particolare forma di tecnologia: i robot e, in special modo, i robot sociali. Dispositivi progettati e costruiti con differenti finalità, sempre orientate a sostenere, integrare, potenziare, supplire alle capacità umane. I contesti della cura, dell’educazione, dell’intervento in situazioni di rischio vedranno sempre più la presenza di questi artefatti.
Dei “Superuomini” al nostro servizio, secondo un’immaginazione utopica, o dei pericolosi alieni capaci di prendere il potere e assoggettarci, secondo le fantasie maggiormente distopiche. Come sempre, i progressi tecnologici sono forieri di potenziali trasformazioni a livello del funzionamento psicologico. Se, per fare solo un esempio, l’ invenzione della scrittura ha potenziato le nostre capacità metalinguistiche e metacognitive, che effetto sortirà nel ciclo di vita l’interazione uomo-robot?
Due fenomeni psicologici saranno a questo riguardo osservabili: da un lato il timore e l’ansia per le novità, che hanno regolarmente caratterizzato gli avanzamenti tecnologici; dall’altro l’animismo, ben studiato da Jean Piaget, cioè la tendenza infantile - mai del tutto sopita - ad ascrivere caratteristiche umane al mondo inanimato. I robot sociali ben si prestano a studiare empiricamente, in situazioni tanto naturalistiche quanto controllate, l’umana attitudine a “umanizzare” la realtà, attribuendole un senso sulla base della propria “psicologia ingenua” o Teoria della Mente (l’inclinazione cioè a interpretare il comportamento sulla base di stati interni di tipo psicologico).
Quanto più un robot sociale è dotato di una Teoria della Mente, infatti, tanto più esso può risultarci comprensibile ed entrare pertanto in interazioni significative con noi. Sia la developmental robotics sia la developmental cybernetics – recenti branche di indagine che si occupano di robot sociali – ci pongono di fronte a un interessante cambiamento epistemologico per quanto riguarda l’impiego della Psicologia in questo ambito di ricerca: stiamo infatti assistendo a una sorta di rovesciamento della prospettiva adulto-centrica che ha prevalentemente caratterizzato le scienze cognitive (considerare il punto di arrivo della competenza adulta come pietra di paragone delle competenze evolutive precedenti), in favore di un costante riferimento ai modelli psicologici di sviluppo e di apprendimento per costruire robot sociali autonomi e capaci di modificare il proprio comportamento in funzione dell’esperienza.
L’Unità di Ricerca sulla Teoria della Mente che dirigo al dipartimento di Psicologia, attraverso gli studi condotti con Davide Massaro, Cinzia Di Dio, Federico Manzi e Giulia Peretti, si occupa appunto da alcuni anni di queste tematiche attraverso varie collaborazioni internazionali, in particolare con colleghi inglesi (Angelo Cangelosi) e giapponesi (Shoji Itakura, Hiroshi Ishigiuro, Takayuki Kanda). È degno di nota che diversi importanti Istituti e Centri internazionali nell’ambito degli studi sui robot sociali abbiano come oggetto la cosiddetta Human-Centered AI.
Si tratta di una visione interdisciplinare e inclusiva dell’interazione uomo-robot, caratterizzata da una quanto mai opportuna centratura sull’umano a vari livelli: di progettazione, di utilizzo, di significazione o attribuzione di senso alle interazioni. Sarà cioè la persona in quanto partner interattivo dotato di caratteristiche “eccedenti” – in primis la coscienza – a definire gli obiettivi della progettazione e i suoi vincoli etici; sarà la persona - come sempre è avvenuto nel rapporto con i media culturali - ad attribuire alle interazioni con i robot sociali e ai progressi che essi le consentiranno un significato non predefinibile a priori, ma connesso alla sua storia psicologica e culturale specifica, in un panorama scientifico e tecnologico in costante divenire in cui i robot sociali, benché caratterizzati da una evoluzione che si prefigura come molto rapida, necessariamente saranno soggetti a costante ibridazione con gli altri strumenti culturali disponibili nei vari contesti.
* docente di Psicologia dello Sviluppo e Psicologia dell'Educazione, facoltà di Scienze della formazione, direttore dell'Unità di Ricerca sulla Teoria della Mente
Secondo articolo di una serie dedicata a come l’intelligenza artificiale ci sta cambiando. Domani il contributo del professor Stefano Poni, docente di Viticoltura alla facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali