Non era la mia prima esperienza di volontariato all’estero e neppure la seconda o la terza. E le quarte volte vivono quell’ansia da prestazione che solo il confronto riesce a dare. Partono caricate della responsabilità di essere all’altezza delle precedenti.
Cochabamba, nel mio immaginario, doveva già cimentarsi in numeri di giocoleria, per dimostrarmi quanto fosse straordinaria, quanto non avesse nulla da invidiare ai mercati indiani e alla terra rossa dell’Africa. In realtà, adagiata in una conca circondata dalle Ande, la città dell’eterna primavera non si sbilancia in nulla: non vanta l’altitudine di La Paz, né la modernità di Santa Cruz, i suoi abitanti sono un poco schivi e riservati ma non mancano di gentilezza. La vita, tutto sommato, scorre tranquilla.
Cochabamba sarebbe stata però il teatro della mia esperienza all’interno del Charity Work Program, della scoperta del lavoro congiunto tra l’Ong Vis e Epdb, del progetto “Escuelas de Líderes” e del lavoro di due mesi con i miei “wawas” di quattro collegi differenti, nella zona sud della città.
I primi giorni li abbiamo passati tra fogli e planning, il nostro compito era quello di impostare un programma di lezioni teoriche e laboratori pratici che andassero a sviluppare i progetti che gli stessi studenti e professori avevano pensato come fondamentali per l’unità educativa tutta. Uno per promuovere la puntualità, il secondo la disciplina e il rispetto, l’altro ancora la non violenza e il “buen trato” e, l’ultimo, il volontariato e il servizio per la comunità.
Quattro obiettivi molto diversi, come diversi erano i quattro collegi. Avrei poi imparato, schiudendo le varie componenti della matrioska, ad apprezzare le differenti sfumature di ogni gruppo di líderes, di ogni piccola comitiva di amici, fino a ogni animo e carattere del singolo, in un’età di tempeste e domande. Che l’adolescenza, si sa, è un cammino irto e difficoltoso un po’ in tutto il mondo.
Quello che ha accomunato tutti quegli occhi impenetrabili dai 13 ai 18 anni è che non mi hanno reso la vita facile. Accoglienti ma composti, non mi davano la soddisfazione di un riscontro veloce, di una reazione scontata, di un contatto più profondo in poco tempo.
Mi hanno forzato a coltivare la relazione con pazienza, a rispettare le distanze fisiche ed emotive, a orientare le lezioni sulla base di dettagli colti. Abbiamo fatto un passo per volta, tra diritti umani, interviste, murales di sensibilizzazione, “l’ananas sulla pizza NO”, “come si dice hola in italiano?”.
Mi sono accorta di tutte le conquiste fatte, tutte. E mentre procedevamo con le lezioni mi hanno introdotto alla loro realtà, fatta spesso di lavoro dopo la scuola, di genitori assenti, di ragazzine giovanissime e già madri. Ma anche di primi innamoramenti, litigi tra migliori amici e preoccupazioni per l’esame di inglese.
Quando mi sono trovata per l’ultima volta faccia a faccia con quegli occhi ormai un po’ meno ermetici, ho riconosciuto la piena importanza di questa esperienza che avevamo condiviso. Per due mesi, a questi studenti di collegi a volte senz’acqua, a volte senza aule sufficienti, è stato dato uno spazio e un tempo per la loro educazione; un’educazione che offrisse strumenti per sviluppare autonomia e autodeterminazione. In prima persona sono stati caricati della responsabilità di progetti determinanti per compagni e professori, è stata data loro la possibilità di scoprire e dimostrare il loro potenziale. Quando li ho salutati avevo davanti ragazzi e ragazze diversi.
E allora grazie Cochabamba, che alla fine sei riuscita a essere straordinaria, straordinaria per me. Che mi hai ricordato, attraverso quegli occhi, perché studio cooperazione internazionale allo sviluppo.
Gracias Cochabamba, ciudad de todos, adesso anche un po’ mia.
* 25 anni, di Arcore, secondo anno di Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano