di Giulia Gafforio *
In un solo giorno sono diventata “teacher”, “best friend” e ”muzngo” (uomo bianco) per dei bambini pronti a meravigliarsi per un palloncino che vola o dei fili colorati da intrecciare.
Alla Bishop Cipriano Kihangire Nursery and Primary School i ragazzi imparano in modo formale e standardizzato, cercando sul vocabolario le definizioni, ripetendole più e più volte, diventando così una regola memorizzata. Per questo, con le mie due compagne d’avventura Sara e Vera, abbiamo pensato di imparare divertendoci: attraverso semplici canzoni in italiano o in inglese, abbiamo portato un po' di Italia tra i banchi di scuola, imparando insieme le parti del corpo, gli animali o i giorni della settimana.
A scuola, come anche presso la fondazione Emmaus dove siamo stati accolti e coccolati per tutta la nostra esperienza di un mese in Uganda, il senso di famiglia, di semplicità e accoglienza sono i pilastri di ogni giornata. Nelle classi, anche se troppo piccole per accogliere tutti (ci sono classi che raggiungono i 100 allievi), c’è sempre spazio per noi “visitatori”. La voglia di apprendere è immensa ed è meraviglioso vedere quanto una “Italian lesson”, o una canzone cantata tutti insieme, possa diventare un incontro tra due culture così diverse.
Incredibile quanto i ragazzi cerchino un contatto con te: basta una lezione di storia ugandese per diventare motivo di discussione con i più grandi sul sistema politico italiano, mentre ai più piccoli è sufficiente stringere loro la mano, dare il cinque o inventare un saluto personalizzato per renderli felici.
Quello che più mi ha colpito e che ancora oggi mi emoziona sono gli occhi dei ragazzi, curiosi e pieni di vita, pronti a cogliere ogni sfaccettatura del mondo che li circonda. Ogni giorno bastava un mio sorriso per vedere la gioia sui loro volti. L’immagine dei loro occhi sorridenti rimarrà indelebile nella mia mente e nel mio cuore.
Mentre mi preparavo a vivere questa esperienza provavo sensazioni di inadeguatezza che avrebbero lasciato ben presto spazio alla consapevolezza che si sarebbe trattato di uno scambio reciproco. Anch’io nel mio piccolo ho saputo donare qualcosa a questi ragazzi. La certezza l’ho avuta quando, uno degli ultimi giorni di scuola, Ouma, un ragazzo della P.5 centre, nel vedermi scendere dalla macchina mi è corso incontro per abbracciarmi. E nel chiedergli come stava mi ha risposto che non stava tanto bene perché gli sarei mancata. Un gesto e delle parole tanto semplici che per me hanno significato molto.
Torno dal mio USCS Charity Program con la consapevolezza del bello, con una gioia che non vedo l’ora di condividere, con la certezza di aver donato un pezzetto di me e la volontà di tornare al più presto sulle immense strade rosse dell’Uganda.
* 24 anni, di Milano, neolaureata in Scienze dell’educazione e della formazione, facoltà di Scienze della formazione, campus di Milano