Ci sono voluti quattro giorni e cinque notti di Consiglio europeo per raggiungere l’accordo sul Recovery Fund definito da molti “storico”. Abbiamo chiesto ad alcuni professori dell’Università Cattolica un commento sull’intesa del 21 luglio che potrebbe segnare la storia dell’Unione europea. Lo speciale


Alla domanda su chi ha vinto e chi ha perso nell’accordo di Bruxelles sul Recovery Fund, il professor Antonio Zotti, docente di Istituzioni europee al corso di laurea in Scienze linguistiche per le relazioni internazionali dell’Università Cattolica, risponde ricordando la natura complessa della struttura istituzionale e del processo decisionale dell’Unione europea – caratteristiche che emergono solo in parte dalla narrativa proposta dai media e spesso dagli stessi diretti protagonisti. «Il formato della decisione in questi casi è tale da non creare mai vincitori e perdenti netti» sostiene il professore. «La stessa ragion d’essere dell’Unione europea è evitare quanto più possibile che alla fine di un processo negoziale ci siano dei vincitori e dei perdenti netti. Ciascuno degli attori coinvolti – Paesi membri, istituzioni europee, attori non istituzionali – ha vinto qualcosa e ha visto delle aspettative frustrate. Peraltro, oltre al fatto che la presunta “vittoria” di un certo Paese non comporta necessariamente il miglioramento delle condizioni di tutti settori della società nazionale, decenni d’integrazione hanno contribuito al rafforzamento d’interessi trasversali rispetto ai Paesi membri. In una società transnazionale articolata come quella europea, l’individuazione di un vincitore è dunque un’operazione irriducibilmente difficile». 

Proviamo a passarli in rassegna. «Se prendiamo la divisione tra Paesi frugali (Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca) e i Paesi con maggior necessità delle risorse messe a disposizione attraverso il Recovery Fund (Italia e Spagna), i primi hanno ottenuto come vittoria sia una (seppur contenuta) limitazione dell’entità complessiva degli stanziamenti (specie quelli a fondo perduto), sia la mancata gestione in maniera autonoma delle risorse da parte della Commissione – ovvero l’istituzione tecnocratica chiamata a perseguire esclusivamente gli interessi e i valori dell’Unione in quanto tale). Il sistema di governance su cui si è trovato l’accordo prevede che i piani presentati alla Commissione da parte dei Paesi membri sull’utilizzo dei fondi siano sottoposti allo scrutinio e al voto del Consiglio dei ministri dell’Unione europea – istituzione nella quale sono rappresentati i Paesi membri a livello ministeriale, secondo configurazioni diverse a seconda della materia trattata». 

Però hanno dovuto cedere su altro…. «La loro richiesta era che il voto in Consiglio avvenisse secondo la regola dell’unanimità, che avrebbe comportato la possibilità per un singolo Paese membro di bloccare l’utilizzo dei fondi. Invece l’accordo finale prefigura una situazione in cui solo una minoranza rafforzata potrà effettivamente bloccare l’utilizzo dei fondi: la somma delle popolazioni dei Paesi contrari ai piani presentati da quelli che utilizzeranno i fondi dovrà essere pari ad almeno il 35% della popolazione dell’Unione europea. Questo fa sì che i soli Paesi frugali non potranno bloccare l’utilizzo dei fondi. Dovranno comunque trovare l’accordo con un Paese medio-grande (Germania, Francia, Italia, o anche Spagna e Polonia). A ciò va aggiunta la possibilità di trovare un compromesso nella “camera di compensazione politica” dell’Unione, ovvero il Consiglio europeo, che raccoglie i capi di stato e di governo dei Paesi membri e il presidente della Commissione e guidato attualmente da Charles Michel».

Che cosa possiamo dire per gli altri Stati seduti al tavolo del negoziato? «Per i Paesi che hanno più bisogno del Recovery Fund, il fatto che il fondo sia stato istituito è già una grande vittoria perché l’Italia potrà ricevere una quantità di risorse pari a più dell’8% del proprio Pil: una quantità di soldi inusitata per il tipo di trasferimenti forniti dall’Unione. Che si sia raggiunto l’accordo senza ulteriori rimandi è un risultato ancora più importante, specie se si pensa a quanto tempo – e quanta fatica – si erano impiegati per reagire alla crisi economica del 2008: in quel caso i Consigli europei si succedettero per mesi, fra decisioni provvisorie e spesso poi rivelatesi inadeguate, quando non dei veri e propri nulla di fatto. Qui, dopo cinque giorni di negoziato, si è raggiunta un’intesa. Ovviamente l’efficacia (non scontata) delle soluzioni proposte andrà valutata con attenzione, ma il dato politico di un incremento relativo della capacità decisionale dell’Ue va riconosciuto».

C’è ancora qualcuno da annoverare nell’elenco dei perdenti o dei vincenti? «Bisogna considerare le vittorie e le sconfitte tra le istituzioni dell’Unione europea. In un certo senso a vedere ridimensionate in modo particolare le proprie proposte è proprio la Commissione, soprattutto perché una delle contropartite maggiori ottenute dai cosiddetti frugali – l’aumento dei rimborsi sulle risorse che ciascuno di questi Paesi destina all’Unione – verrà finanziato anche con un forte ridimensionamento di molti programmi che erano stati annunciati da Ursula von der Leyen come caratterizzanti il programma del suo mandato, come quelli destinati alla transizione verso un’economia più sostenibile e il programma di ricerca Horizon 2020. Bisognerà inoltre fare attenzione alla tensione che si prepara tra Parlamento e Consiglio. Il primo è tradizionalmente molto attento alle questioni relative al rispetto dei principi dell’Unione europea, tra cui quelli della democrazia, il rispetto delle libertà e dei diritti umani e la difesa dello stato di diritto. Infatti, fra le condizioni che la Commissione proponeva affinché i Paesi membri potessero usufruire delle risorse europee era proprio il rispetto di tali principi – ma pare che questo sia stato uno dei punti sui quali si è ceduto per ottenere il sostegno di alcuni membri. Il presidente del Parlamento Sassoli ha già annunciato che le concessioni più o meno esplicite fatte a Paesi come l’Ungheria o la Polonia, dove le ultime riforme costituzionali non vanno decisamente nel senso del rispetto di questi principi, potrebbero essere accolte male in fase di approvazione degli accordi».

Come esce il progetto europeo da questa crisi del Coronavirus e da questo accordo del Recovery fund: indebolito o rafforzato? «Mi arrischierei a dire che il risultato è positivo, nel senso che la crisi economica e sanitaria da affrontare era di una gravità eccezionale, e l’Unione è riuscita in una qualche misura a uscire dai propri moduli di funzionamento usuali per rispondere a tali circostanze – e nonostante l’Unione sia ormai da più di dieci anni in uno stato di crisi continua. Fra gli aspetti positivi possiamo annoverare un certo esercizio di leadership della Germania, seppur contenuto entro i tradizionali caratteri della partecipazione del Paese ai processi politici europei e i connotati della personalità politica di Angela Merkel. Questa è una buona notizia, specie alla luce delle accuse (ragionevolmente) mosse contro un’Unione europea incapace di agire in maniera tempestiva, a causa di un sistema istituzionale così policentrico orizzontale, con tante istanze e agende diverse. . In questo caso la Cancelliera tedesca e il suo governo sono riusciti a prendere l’iniziativa, a riavviare il famoso “motore franco-tedesco” tramite un rinnovato rapporto col Presidente della Repubblica francese”, e nel complesso a garantire una certa legittimità politica a tutta l’operazione».

Anche le risorse messe a disposizione sono notevoli… «È qualcosa che non era mai successo prima, perché l’Ue è sempre stata un soggetto focalizzato sul lungo termine, sugli aspetti strutturali dell’economia. La capacità di inventarsi un modo per intervenire in risposta a una crisi acuta è, dunque, un buon segno per il progetto di integrazione europea. E un segno positivo è che l’Unione europea sia entrata prepotentemente nel discorso pubblico, perché l’indifferenza sarebbe stata un danno molto maggiore. Non dimentichiamo che il budget dell’Ue è una parte irrisoria del Pil del continente: se il bilancio pubblico dei Paesi europei è di solito pari a una percentuale che va da un terzo a metà del prodotto interno lordo nazionale, quello dell’Unione è solo l’1% del Pil europeo. Eppure l’Ue è vista come un attore politicamente rilevante per risolvere i problemi. E questo è segnale incoraggiante».

Ci sono anche altre novità? «Di positivo c’è anche che l’Europa comincerà a fare ricorso a risorse proprie attraverso l’applicazione di tasse su prodotti derivati da processi non ecologicamente compatibili. E quindi quando uno Stato importerà prodotti provenienti da Paesi che non rispettano determinate normative, si applicherà una tassazione europea. Certamente bisognerà accompagnare tale iniziativa con un intenso sforzo di diplomazia commerciale, per evitare che una misura percepita come unilaterale dia luogo a “guerre commerciali”. Tuttavia, questa è una buona combinazione tra gli obiettivi ideali di lungo termine di riduzione dell’impatto delle attività umane sull’ambiente naturale con la possibilità di raccogliere risorse».

Una vittoria del progetto europeo… «Certo, anche se è stata controbilanciata perché uno dei più grossi punti a favore, invece, dei Paesi “frugali” è che, pur avendo raggiunto un compromesso su un sistema di governance del fondo più agile, come contropartita hanno anche ricevuto un aumento sostanziale dei rimborsi sulle risorse che trasferiscono all’Unione europea. L’Austria ha visto addirittura raddoppiato i propri rimborsi. Una cosa che può piacere o non piacere ma corrisponde anche con i cicli elettorali: in Olanda bisogna votare ed è difficile far passare il messaggio: stiamo trasferendo risorse a Paesi che consideriamo poco virtuosi. A ciò si aggiunge peraltro un ridimensionamento delle aspettative iniziali sull’entità del Quadro finanziario multiannuale (l’atto che determina le risorse dell’Unione per i prossimi sette anni, da articolare nei bilanci annui), negoziato in concomitanza con le misure di risposta agli effetti economici della pandemia».

Al tavolo delle trattative non c’era solo la resistenza dei Paesi “frugali” ma aleggiava ance il fantasma delle forze sovraniste. Che ricadute avrà il Recovery Fund in questa direzione? «Sulla possibilità che questo accordo sia in grado di contenere le forze sovraniste, che noi in Italia identifichiamo con Lega Nord e Fratelli d’Italia, ci sono forti dubbi, perché questi 750 miliardi cominceranno a essere distribuiti soltanto quando i Paesi avranno presentato i loro progetti e saranno passati al vaglio della Commissione e del Consiglio dei ministri europeo. I soldi, quindi, non arriveranno prima del 2021 avanzato e i soldi “grossi” arriveranno negli anni successivi e dunque, nell’immediato, tutte le argomentazioni che fomentano la forma politica dei partiti nazionalisti o sovranisti potranno rimanere, se usate con scaltrezza. Peraltro, l’utilizzo dei prestiti concessi attraverso il tanto discusso Meccanismo europeo di stabilità (Mes) è destinato a continuare ad animare il dibattito politico, poiché queste rimangono le uniche risorse immediate a disposizione dei governi dei Pesi colpiti dagli effetti della crisi. I partiti variamente sovranisti e anti-europeisti potranno quindi continuare a sventolare la prospettiva di un’applicazione dura delle condizionalità sottese a questi prestiti come se fossero un destino ineluttabile – l’ormai noto spauracchio della Troika che arriva in Italia e viene per fare gli sfracelli che ha fatto in Grecia. E quindi la prospettiva di una tenuta o di una crescita delle forze sovraniste non è assolutamente da escludere».

Il presidente francese Macron ha definito l’accordo un risultato storico. È d’accordo? «Al netto del tradizionalmente alto livello di enfasi che di solito caratterizza le comunicazioni dell’Unione europea, possiamo dire di essere di fronte a un risultato molto positivo, soprattutto perché veniamo da dieci anni in cui una gran parte delle certezze relative al processo d’integrazione europea sono venute a mancare. La capacità di prendere una decisione del genere nelle circostanze attuali e l’entità della decisione è di sicuro significativa perché conferma una rilevanza dell’Unione europea che non potevamo e non possiamo dare per scontata. Il fatto che un capo di Stato come Macron abbia interesse a “far premio” di un risultato raggiunto in sede comunitaria è proprio una conferma paradossale dell’importanza dell’Unione europea, che non è un elemento accessorio rispetto alla politica nazionale (intesa come la “politica vera”) ma è talmente dentro i processi democratici dei singoli Paesi che, si sia contrari o favorevoli, i decisori politici, stiano al governo o all’opposizione, semplicemente non possono fare finta che non esista. Fino soltanto a 30 anni fa non necessariamente tutti i partiti politici si presentavano con una propria idea sull’Unione europea. Più o meno si era tutti d’accordo che l’integrazione europea era positiva – o perlomeno “non nociva” – proprio perché solo relativamente rilevante. Oggi, invece, far fare un passo avanti o bloccare il processo di integrazione è diventato un aspetto centrale dei programmi dei partiti politici, e un elemento decisivo per ottenere il risultato più importante per un politico, ovvero raccogliere consensi e vincere le elezioni».


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