di Brenda Candura *

Manisha, Minakshi, Gaurav, Pushkar, Pushkan, Vikash, Kishan, Gunja, Laxmi, Durga, Dasuda, Devia, Janvi... Quando sono entrata per la prima volta alla scuola elementare di Bedla, in India, ho pensato che di quei piccoletti non avrei mai ricordato nessun nome, eppure eccomi qui a elencarli.

Quando scendiamo dal pulmino che ci porta davanti la scuola ogni mattina, il primissimo impatto con i bambini è destabilizzante e bellissimo allo stesso tempo. Io e la mia compagna d’avventura, Gabriela, ci troviamo di fronte una quarantina di bambini sorridenti e scatenati, da subito ci dicono: “hi!” e ci chiedono: “naam?” per conoscere il nostro nome. Sono tanto piccini, dai quattro agli undici anni più o meno. Ridono tantissimo, ci tengono per mano, ci portano in giro, vogliono conoscerci e giocare con noi. La cosa più carina è che mi chiamano subito “Didì” che significa sorellona. Così, dato che non ricordano il mio nome, io sono rimasta per tutto il tempo Didì.

Prima di fare lezione di inglese, il nostro primo giorno, ci capita di vederli pranzare, quello per loro è un “brunch” per così dire, perché non fanno colazione, mangiano pranzo e colazione lì a scuola, a volte fa anche da cena. Provengono da famiglie povere, appartenenti alla campagna della zona di Bedla, la scuola è pubblica e può dar loro questo servizio, talvolta con l’aiuto dei volontari.

I bambini mangiano in un corridoio all’aperto, parte della scuola: mangiano su dei tappetini blu stretti e lunghi, i piatti sono quelli tipici indiani, dall’aspetto di vassoi d’alluminio ai nostri occhi, contenenti riso basmati, un chapati, un mix di verdure condite da una salsa al curry di colore giallastro. Io sono seduta accanto a loro e li osservo, mentre contenti consumano il loro pasto, uno accanto all’altro, sul pavimento, decine di mosche attorno, mentre con le mani impastano il riso col resto dei condimenti e lo mangiano.

Ci viene assegnata la classe dei più piccoli, un’età che si aggira tra i 4 e i 5 anni, con l’eccezione di alcuni bambini che potrebbero averne 8 perché sono indietro con l’apprendimento. Prima di cominciare la lezione cantiamo insieme la canzone del buongiorno e la interpretiamo a gesti, loro sono molto contenti perché è tutto un gioco. A lezione in due ore facciamo l’alfabeto, i numeri, i colori e gli animali, intervallati da qualche gioco. Non è facile tenerli attenti tutto il tempo, per loro ripetere lettere e numeri è pesante, ma sono felicissimi quando li premiamo con gli adesivi colorati se hanno fatto bene il loro lavoro e ne vorrebbero sempre di più ma non possiamo viziarli, dobbiamo disciplinarli.

Verso la fine della lezione iniziano ad andare alla lavagna, mi prendono la mano, “Didì! Didì!”, mi fanno vedere come scrivono il loro nome, tra una sbavatura e l’altra, a volte si sfidano perfino tra di loro; qualcuno ha raccolto dei fiori e me li porge sorridente.

Col passare dei giorni, il caldo e la terribile umidità monsonica, ci hanno messe alla prova, la stanchezza si faceva sentire e ci rendevamo sempre più conto di quanto potesse essere difficile insegnare e fare in modo che tutti capissero. Può essere frustrante, quando dopo tanti giorni i bambini continuano a non capire concetti estremamente semplici.

Uno degli ultimi giorni avevamo appena finito di fare gli esercizi e stavamo premiando la classe con un gioco tramite il quale potessero imparare a distinguere i colori, dunque ci eravamo spostati per terra in un angolino. Vikash, un bambino di 5 o 6 anni, forse il più timido, mi chiama: “Didì paper!”, voleva un altro foglio di carta con gli esercizi, gli ho chiesto se non preferisse andare a giocare ma timidamente lui scuote la testa facendo di no e dicendomi “paper!” mentre indicava il foglio di carta con gli esercizi, allora sorrido e gliene do un altro. Mentre giocavo con gli altri bambini di tanto in tanto tornavo da lui a controllare che facesse bene, lui si girava, timidissimo sorrideva e mi faceva vedere come lavorava. È stato uno dei momenti più dolci e gratificanti che ricordo.

Adesso mi chiedo: chissà come stanno i miei bambini, se tutti vanno ancora a scuola, e chissà se sono davvero riuscita a insegnar loro qualcosa. Spero davvero che in qualche modo, il lavoro di noi volontari, riesca a dar loro qualche possibilità futura, a quell’età si assorbono tanti nuovi concetti e tante informazioni, chissà, magari un giorno qualcuno di loro crescendo troverà la sua strada e ricorderà quei giorni di luglio.

* primo anno della laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano