di Andrea Terzi *
Si torna a parlare di “minibot”. A un anno esatto dalla formazione del Governo, la Camera dei Deputati ha votato all’unanimità una mozione che lo impegna a sbloccare il pagamento degli arretrati dovuti a professionisti e imprese anche ricorrendo a “titoli di Stato di piccolo taglio”, proprio come recitava il “contratto per il governo del cambiamento” siglato dai due partiti di governo. Ma perché mai lo Stato dovrebbe pagare i propri creditori non già con un bonifico ma consegnando dei titoli cartacei, molto simili a banconote, emessi direttamente dal Tesoro?
La formula è criptica al punto che qualche parlamentare ha confessato di aver votato la mozione senza afferrarne il contenuto. Parrebbe, a prima vista, poco rilevante che lo Stato reperisca i fondi per pagare i creditori, oppure consegni direttamente ai creditori dei titoli di nuova emissione. In entrambi i casi, lo Stato paga i creditori indebitandosi. Ma a sentire i promotori (tra cui l’attuale Presidente della Commissione Bilancio della Camera) e a rileggere il passaggio del “contratto” di governo dove si auspicano i minibot “anche valutando nelle sedi opportune la definizione stessa di debito pubblico”, è chiaro a che scopo questa maggioranza potrebbe in futuro ricorrere ai minibot: fare concorrenza alla moneta unica.
Gli ideatori descrivono il minibot come un titolo del Tesoro “sui generis”. Non ha scadenza, quindi non dà diritto a un rimborso in euro all’estinzione, e non paga interessi. A fronte di questo evidente handicap, e a differenza dei comuni titoli pubblici, lo Stato italiano (e solo quello) li accetterebbe in pagamento delle imposte. Nell’auspicio dei promotori, ciò basterebbe per renderli pari all’euro, consentendo al Tesoro di finanziare la spesa con l’emissione diretta di questi “quasi-euro di casa nostra”.
Prima ancora di chiederci se, e a quale valore, queste quasi-banconote sarebbero accettate come mezzi di pagamento, va rilevato che una legge che istituisse una “moneta parallela” non potrebbe essere promulgata dal Capo dello Stato senza averne preventivamente accertato la compatibilità col Trattato sull’Unione Europea. E il progetto evidentemente confligge con l’adesione all’unione monetaria. Tecnicamente, i minibot sono assimilabili alle monete metalliche in euro che teniamo nel borsellino, emesse anch’esse dal Tesoro in quantità autorizzate dalla Banca Centrale Europea, e iscritte a debito dello Stato. Nella migliore delle ipotesi, essi sarebbero considerati nuovo debito. Nella peggiore, sarebbero assimilati alle monete metalliche e anche un solo euro di emissione dovrebbe essere autorizzato dalla Bce.
Se i minibot vi sembrano un tentativo di aggirare le regole sul debito o addirittura una premessa per uscire dall’euro, non vi sbagliate, perché è proprio questa la dichiarata intenzione dei proponenti, i quali si immaginano che in un confronto con la Commissione Europea, la diffusione di queste quasi-banconote consentirebbe di negoziare da una posizione di forza e, se questo non bastasse, offrirebbero una transizione verso la nuova moneta. In realtà, al solo sorgere di uno scontro di tali proporzioni, i prezzi dei veri titoli di Stato (quelli che promettono euro) cadrebbero a picco, causando una vera e propria crisi finanziaria dello Stato e delle banche. E quel giorno il governo si sentirebbe autorizzato a proporre l’Italexit come il male minore.
Amara è l’Europa quando un Paese fondatore contempla vie di uscita, invece di fare proposte credibili per riformare davvero la politica fiscale europea nell’interesse delle generazioni future.
* docente di Economia monetaria alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica