di Giuseppe Lupo *
Nella libreria di mio padre c’era un libro che aveva un titolo per me incomprensibile: L’età della luna. Lo aveva scritto Leonardo Sinisgalli, ma per quante volte lo prendessi in mano non riuscivo a capire cosa volesse intendere. Per caso la luna compiva gli anni? E ammesso che fosse vero, quand’era il suo compleanno?
A un certo punto compresi che il libro aveva a che fare con lo sbarco di Armstrong, quel luglio famoso in cui non avevo compiuto sei anni, ma ricordo il vetro del televisore di mio nonno che era tondo come la corona di sedie su cui eravamo seduti tutti, perfino nonna che pure non aveva grande dimestichezza con quell’apparecchio e ogni tanto andava ad affacciarsi sul ballatoio.
«Questi che sono qui sono lì?» chiedeva quando rientrava e indicava con una mano il vetro del televisore, con l’altra il ballatoio fuori, illuminato appunto dalla luna.
«È chiaro, è chiaro» diceva mio padre. Ma non trovava le parole nemmeno lui. Se le avesse avute, avrebbe dato spiegazioni più ampie, perciò si limitava a ripetere è chiaro, è chiaro, dando conferma a tutti che quella sera stava accadendo qualcosa di molto astratto.
Nonno era un pezzo di marmo e il suo silenzio nascondeva un sentimento cerimonioso per le voci metalliche che arrivano dai buchi del televisore: c’era un uomo con gli occhiali e un ciuffo di capelli irrequieto, che si agitava davanti a un microfono, guardava e parlava, le rughe di sudore sembravano correre come rigagnoli dalla fronte. E c’era un altro di cui non si capiva granché perché mangiava le finali, arrotondava la erre, si intrometteva nei discorsi e faceva no, no con la testa. La luna parlava americano quella sera e questo metteva soggezione a tutti.
«È chiaro, è chiaro» ripeteva mio padre. Ma non era chiaro per niente. Come poteva essere arrivato l’uomo fin lì?
Eravamo increduli e guardavamo il grigio che colorava le immagini nel televisore: antenne, treppiedi, macinacaffè, questo ci sembravano quegli strani attrezzi volanti che vedevamo muoversi in tv con una lentezza esasperante. Ma accettavamo senza reagire: era così, ce lo raccontava la televisione, come non credere?
Finita la trasmissione, spento l’apparecchio tv, ci guardammo tutti in faccia senza aggiungere nulla, poi ce ne tornammo a casa nostra, passando sotto il chiaro della luna che era alta nel cielo. Nulla era cambiato, eppure sapevamo che uno di noi era arrivato lassù, con i piedi ben piantati sul terreno di buche e cerchi. Adesso la luna non era più intoccabile. Avrebbe cominciato a spegnere le candeline, un anno dopo l’altro, e il tempo le avrebbe dato l’età per invecchiare.
* scrittore e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Brescia