Hanno frequentato la scuola di giornalismo dell’Università Cattolica o hanno incarichi di docenza e sono in prima linea, su diverse testate, nel racconto della pandemia da Coronavirus. Ma testimoniano tutti insieme che i media, soprattutto online, restano ancora vitali. Le voci dei nostri reporter in una serie di articoli
«Il giornalismo è cambiato proprio raccontando quest’emergenza. È un giornalismo che si è rimesso in gioco ed è tornato sul campo». Pane per i denti di Alessio Lasta, questa crisi da coronavirus. Diplomato al master in Giornalismo dell’Università Cattolica, oggi è un inviato di punta di “Piazzapulita”, la trasmissione di Corrado Formigli in onda su La7. Autore di inchieste e reportage anche per Rai e Mediaset, ha raccontato l'Italia degli ultimi e quella dei furbetti. È stato tra i primi ad accendere un faro sulla crisi degli imprenditori a Nordest e a portare in tv le vicende dei truffati dalle banche. E oggi è in prima fila sul fronte dell’epidemia di Covid-19, che ha stimolato il giornalismo a farsi più attento.
«L’emergenza chiedeva proprio questo: professionisti capaci di andare incontro alla realtà per decifrarla e raccontarla a chi stava a casa» racconta. «L’aumento di consumo televisivo impone poi una maggiore attenzione rispetto a prima nella realizzazione dei servizi TV. La linea che ho scelto è quella di informare senza allarmismi ma senza censurare immagini dure, perché i fatti erano e sono duri. Nella realizzazione dei reportage televisivi però è richiesta quella che io chiamo “castità” nel montaggio e nell’utilizzo delle immagini».
Che cosa intende? «Significa montare e utilizzare immagini dure ma senza alcun intento voyeuristico. Ci ho pensato molto prima di andare nelle terapie intensive perché avevo timore di essere accusato di fare del sensazionalismo e di utilizzare le immagini in maniera strumentale. L’immagine serve per un senso più alto: dare forma e corpo ad un virus che era stato etichettato come una semplice influenza. Io ho raccontato le terapie intensive proprio per far capire che cosa fosse nella realtà il coronavirus e per darne un’immagine visiva. Un giornalista televisivo lavorando con l’immagine deve saperla governare ed essere consapevole della sua potenza e della pervasività del mezzo televisivo. Soprattutto in questo momento cruciale. Nelle terapie intensive si riprende rispettando la privacy dei malati e facendo attenzione a non eccedere nel racconto».
Si può dire quindi che i suoi servizi realizzati all’ospedale di Cremona e Treviglio abbiano aperto gli occhi alla gente? Come ho detto la decisione di andare nelle terapie intensive non è stata facile. In quel momento però mi sono detto che bisognava decidere una cosa: chi si voleva essere e che tipo di giornalismo si voleva fare. Dopo diversi colloqui con amici e scienziati ho pensato che il coronavirus non potesse essere una normale influenza. In quel momento l’Italia viveva già da due settimane il virus ma ne aveva solo sentito parlare».
Allora cosa ha scelto di fare? «Raccontare un virus non è come raccontare un terremoto dove vedi chiaramente le macerie. Le immagini sono state importanti proprio perché hanno dato corpo e forma a qualcosa che fino a quel momento era invisibile e non misurabile nella sua gravità. Questo è stato il merito del giornalismo televisivo: far cambiare la consapevolezza degli italiani. Cambiare la percezione della gente attraverso i reportage è stata anche un’alleanza terapeutica: far vedere come si rischia di finire in una terapia intensiva è importante tanto quanto il distanziamento sociale».
Ci può raccontare nel dettaglio la realizzazione di questi servizi televisivi? «La scelta di documentare dall’interno è partita da una mia sollecitazione che è stata accettata dal direttore sanitario di Cremona. Lì abbiamo documentato lo straordinario lavoro del personale medico nella gestione dell’emergenza attraverso immagini che sono state trasmesse in una quarantina di televisioni: dalla BBC alla Tv giapponese fino a praticamente tutte le TV europee. A Treviglio invece bisognava cambiare registro. Quello che ho chiesto di fare a Corrado Formigli e a Piazza Pulita, che mi hanno sempre sostenuto in questa linea di racconto, è stato questo: rimanere all’interno dell’ospedale ma concentrarsi di più sulle emozioni del personale sanitario».
Con quali conseguenze? «Qui è venuta l’idea del video diario in cui un medico e un infermiere si raccontano durante una settimana in corsia. Così hanno raccontano i loro pensieri, sensazioni, e la difficoltà nel rapportarsi con la morte. Non bisogna avere paura di raccontare la morte anche attraverso le immagini. A Treviglio ho filmato l’unzione degli infermi a un paziente deceduto ma ho scelto di tenere la telecamera lontana. Avrei potuto avvicinarmi, ma ho preferito fare un passo indietro proprio per quel concetto di castità di montaggio e ripresa che non significa censurare. Il giornalismo rassicurante in sé per me non ha senso. Il giornalismo che rispetta il limite del diritto di cronaca, verità sostanziale dei fatti, continenza verbale, interesse pubblico, è l’unico faro che ci può guidare nel racconto. Non possiamo avere paura di quello che ci sta di fronte, nemmeno di filmarlo nella sua crudità. Nel montaggio, poi, c’è modo di riflettere e anche scegliere di non utilizzare determinate immagini può essere fondamentale».
Lei ha raccontato anche il dramma dei morti in casa per il Covid-19. Quanto è stata complicata l’intervista a madre e a figlia che hanno visto morire il loro marito e padre tra le braccia? «Faccio giornalismo televisivo dal 2004 e quella è stata forse l’intervista più difficile da condurre. Entri in una casa dove due persone hanno perso in maniera violenta e traumatica un proprio caro e sei di fronte a due storie di dolore diverse. Inizialmente cominci a porre delle domande più larghe che portano l’intervistato a raccontare un dramma in maniera quasi cronachistica. Poi scoppia un pianto di dolore, un’emozione vera che non puoi fermare e arginare con le parole. In quei momenti il giornalista non può parlare perché non potrà mai avere parole che possono compensare quelle lacrime».
Come ha affrontato una situazione così difficile? «Realizzando quell’intervista ho capito che Asia, la figlia, aveva voglia di parlare. Quando percepisci che una persona ha voglia di raccontarsi e di regalarti parte di un’intimità veramente profonda non servono troppe domande se non quelle giornalisticamente necessarie. Mentre viaggiavo con il flusso di pensieri di Asia e della madre mi sono reso tragicamente conto che ci sarebbe stato un dopo intervista. Ed è un momento complicato per chi, come me, fa del giornalismo sociale un po’ una missione. Io non riesco a stare laterale rispetto alla storia che racconto, non è mai stato il mio orizzonte».
Può dirci cos’è successo dopo l’intervista? «Quando è finita c’è stato un attimo di silenzio e ci siamo guardati tutti e tre negli occhi. È stata Asia a togliermi dall’imbarazzo, dicendomi di aver parlato a nome di tutte quelle persone morte in casa che risulteranno decedute non per Covid-19 ma per altre cause quali arresto cardiaco o insufficienza respiratoria. Poi si è sciolta in un sorriso, la cosa più bella di chi ha quell’età ed ha ancora la voglia di andare avanti e avere un futuro».
Cos’ha imparato e cosa sta imparando da quest’esperienza? «S’impara sempre da qualcosa che racconti, soprattutto se si parla di un fatto così grande che purtroppo resterà nella storia. Ho cambiato il modo di gestire il mio tempo, di mettermi di fronte al racconto. Confesso di aver avuto anche attimi di debolezza e solitudine. Hai sempre paura di entrare in un ospedale ma un giornalista che non si prende dei rischi per raccontare i fatti vedrà sempre da lontano e male. L’esigenza di raccontare è più forte».