«Sembra esserci nell’uomo, come nell’uccello, un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove», scriveva Marguerite Yourcenar nel suo ultimo libro, Il giro della prigione. Canna pensante, animale sociale, l’essere umano è anche un animale migrante: lo spostamento, il decentramento, l’esplorazione fanno parte della spinta ad auto-trascendersi che gli conferisce una posizione unica nell’universo. Come scriveva Albert Camus, l’uomo è l’unico animale che non si accontenta di essere ciò che è.
Con la tarda modernità e lo sviluppo tecnico il sogno di una mobilità senza limiti per tutti è diventato realtà. Tempo accelerato, spazio compresso: per il giro del mondo non servono più 80 giorni, ne basta uno solo. Villaggio globale.
Ma dopo la crisi del 2008 ci si è accorti del lato più problematico della mobilità, giungendo al paradosso evidenziato da Zygmunt Bauman: il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato. Insomma, la mobilità celebrata è quella a senso unico. Un diritto, ma non per tutti. Ecco che allora iniziano ad alzarsi i muri, a risorgere i nazionalismi, a riaccendersi i richiami alla purezza identitaria.