Santiago RoncaglioloSantiago Roncagliolo è un giornalista e scrittore peruviano di romanzi noir e libri per bambini. Con Abril Rojo, ha vinto il premio Alfaguara, nel 2006, e l'Independent Foreign Fiction Prize, nel 2011. È stato uno dei protagonisti principali della undicesima edizione del “Dia Negro”, l'iniziativa promossa come ormai da tradizione dalla cattedra di Lingua e Letteratura spagnola, presieduta dal professor Dante Liano, e dal Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterature straniere, in collaborazione con l’Instituto Cervantes di Milano che, con la scusa di parlare di giallo, di “noir” in realtà parla di letteratura e dell’insondabile profondità e mistero dell’uomo.

Quali scrittori e quali circostanze hanno influito maggiormente sulla sua opera? «Sono cresciuto in un luogo molto violento, in Perù, negli anni Ottanta. C’erano bombe, sequestri e blackout. Quindi quello che si faceva era rimanere in casa propria. In casa mia c’erano libri e una televisione. Sono cresciuto leggendo i grandi scrittori latinoamericani della nostra epoca, come Vargas Llosa e García Márquez, e con la televisione e la cultura popolare, con i film gialli e di terrore. Ho sempre pensato che i miei romanzi abbiano un po’ di entrambe le cose. Mi interessa giocare con il linguaggio e con la tradizione letteraria dalla quale provengo, ma anche che tutto sia molto diretto e che catturi, come la cultura popolare. Che faccia paura o ridere o piangere, come la cultura popolare di sempre».

Come si intrecciano i suoi ricordi e la vita reale con quello che scrive? «Sono tanti anni che vivo lontano dal Perù e scrivere per me è una maniera di tornarci e di recuperare un Paese che in realtà non esiste più. Quando ci vado parlo il gergo di mio nonno, uso parole che si utilizzavano quando vivevo lì e che ora non pronuncia più nessuno. Ora vivo in Spagna, che è il luogo dove ho studiato e sono cresciuto. Amo vivere lì, ma sono sempre un po’ scombussolato: è come se fossi un turista in qualsiasi luogo mi trovi. Il Perù già non è il Paese in cui sono cresciuto, né, chiaramente, lo è la Spagna. Quindi scrivo per recuperare uno spazio mio, che mi rappresenta, perché fuori dai libri non c’è da nessuna parte».

Bisogna partire dal passato per raccontare il presente? «Non sempre scrivo del Perù, ma quando lo faccio si tratta sempre di cercare senso a questo Paese e alla mia stessa vita. Questo si cerca nel passato, il futuro ancora non si conosce. Quindi per intuire dove si va, bisogna guardarsi indietro. Ora che ho dei figli, che sono spagnoli, voglio che sappiano da dove vengono».

Ha iniziato scrivendo libri per bambini e poi è passato al noir. In che modo si conciliano questi due generi? «Non sono così diversi alla fine. Tutto quello che faccio, in realtà, ha a che fare con la letteratura popolare. Romanzi noir, commedie, libri per i bambini e così via. Scrivo anche libri giornalistici e il giornalismo è ciò che di più popolare c’è nella letteratura, è quello che milioni di persone leggono tutti i giorni. Non mi è mai piaciuto l’elitismo letterario, l’idea che un buon libro sia un qualcosa che possono comprendere in pochi. Mi sembra uno sguardo snob sulle cose, gente che vuole ostentare il fatto che scriva libri che non capisce nessuno. Apprezzo l’alta letteratura, ma mi è interessata sempre quella popolare e parlare di cose che tutti conoscono. Credo che si possa essere originale e intelligente e dire cose interessanti usando gli espedienti narrativi che tutti conoscono».

I premi che ha vinto hanno influito sulla sua vita di scrittore? «Faccio delle cose, diciamo, rischiose; faccio quello che mi interessa. Cerco di non fare quello che chiedono gli editori o altri o la tradizione. Quando si corre questo rischio si hanno grandi successi e grandi fallimenti. Improvvisamente si producono libri che si vendono moltissimo e con critiche positive, altri che invece hanno l’effetto contrario. Dopo un po’ di tempo si impara che per non deprimersi troppo per i fallimenti, non si deve neanche farsi condizionare eccessivamente dai successi. Sono felice quando le cose vanno bene, ma per poter scrivere bisogna cercare di non dipendere troppo da ciò che viene richiesto da fuori, bisogna stare più attenti a ciò che succede dentro di sé, a quello che si desidera trasmettere. Bisogna quindi essere gentili ed essere grati quando le cose vanno bene, ma non prendere il successo troppo seriamente».

Il protagonista di Abril rojo, Félix Chacaltana Saldívar, ritorna al centro del suo ultimo libro La Pena Maxima. «In realtà, avevo l’intenzione di non scrivere altri libri con questo personaggio. Il successo di Abril rojo fu impressionante e questo è bello, ma poi diventa una specie di carcere. Tutti si aspettano che torni a fare lo stesso e io ho passato tanto tempo a scrivere cose completamente diverse. Magari era un suicidio, ma erano le cose che realmente volevo fare e con la libertà che voglio conservare. Però questa volta avevo una storia che non sapevo come raccontare. Volevo parlare del calcio, della dittatura e dell’ambiguità del Perù rispetto alla dittatura argentina. Volevo raccontare una storia di terrore, ma non riuscivo a darle forma. Mi si presentò il procuratore Chacaltana e mi domandò: “Perché non la racconto io?”. E io risposi che non volevo che la raccontasse lui, che non volevo essere sempre ricordato come l’autore del romanzo di Chacaltana; ma la realtà è che era lì e aveva la giusta età e sapeva tutto ciò che doveva sapere per raccontare questa storia. Così mi tolse di mezzo con una gomitata e si impossessò della storia e la raccontò come volle».
 
Ci saranno altri libri con Chacaltana o questo è stato un caso? «Non lo so, dipende da lui. Chacaltana fa con me quello che vuole, è come mia figlia».

Che cosa rappresenta questo personaggio? «Una giornalista mi ha detto una volta, in modo provocatorio, che Chacaltana perde l’innocenza in entrambi i libri. È la verità. Credo che il Perù sia un Paese che ha perso l’innocenza molte volte. In generale, questo è una caratteristica della politica, che è una costante perdita dell’innocenza. Qualcosa di analogo è successo anche in Europa: si credette nella rivoluzione socialista, ci fu la delusione per essa, si iniziò a credere in un sistema liberale e infine si arrivò alla crisi finanziaria. Impariamo a suon di schiaffi a cambiare, abbiamo bisogno dell’illusione e dell’innocenza per fare le cose e quando le facciamo ci accorgiamo che non sono così positive. Però non c’è altro modo di farle, siamo condannati a perdere l’innocenza periodicamente. Chacaltana rappresenta tutto questo, rappresenta questa voglia di credere che tutto stia andando bene e alla fine tutto si distrugge».