“Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali?” è il titolo del convegno promosso dal centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita” il 30 ottobre a Milano. In quell’occasione il professor Giuseppe Lupo ha lanciato un dibattito a cui hanno aderito alcuni docenti della Cattolica. Pubblichiamo il contributo del professor Enrico Reggiani
di Enrico Reggiani *
Chierici, cortigiani, battitori liberi: quale ruolo per gli intellettuali? Rispondo citando il poeta irlandese Seamus Heaney (1939-2013; Premio Nobel per la Letteratura 1995): “No such thing / as innocent / bystanding” (“Non esiste spettatore innocente” ndr) (1996).
Per amor di chiarezza - con una qualche inevitabile approssimazione (che i lettori, solitamente pazienti, perdoneranno in questa atmosfera natalizia) e per stimolare il confronto - dico in estrema sintesi come interpreto le figure in questione. Colloco, in primo luogo, il chierico nel territorio antico della dominanza culturale di un paradigma sovrumano che lo trascende; in secondo luogo, il cortigiano nella sfera di influenza di un essere umano che lo sovrasta gerarchicamente (sovrano) e il cui spazio vitale (corte) ambisce a coltivare; infine, il battitore libero (o, più semplicemente, libero) non nella cornice di un’esperienza individualistica e anarchica (come troppo spesso si pensa), ma - come insegna la cultura calcistica da cui questa espressione proviene – nell’esperienza olisticamente orientata di una squadra in cui egli, pur non dovendo necessariamente arginare una specifica iniziativa ostile, nondimeno vi assolve più compiti di differente e complessa natura, sia difensivi sia di impostazione della strategia operativa del gruppo.
Ora, proprio perché concordo con Silvano Petrosino sul fatto che “nessuno può definirsi intellettuale e nessuno fa il mestiere dell’intellettuale”, non posso non esplicitare una mia profonda convinzione che riguarda tutti coloro ai quali la “merciful providence”, menzionata da James Joyce (1882-1941) in Ulysses, ha concesso il privilegio di un lavoro prestato intellettualmente. A tutti costoro, ovvero a tutti noi, toccano l’impegno e la responsabilità di rivestire da liberi e forti ruoli e funzioni di chierico, cortigiano, battitore libero e molti altri ancora, nonché di rivestirli senza il difetto di cui scrisse Denis Diderot (1713-1784) in una sorta di “operetta morale narrativa” dal titolo curioso di Ceci n’est pas un conte (Questo non è un racconto, 1772): “Il fatto è, che ci piaccia o no, ci adeguiamo all’atmosfera che percepiamo. Quando entriamo in un salotto, fin dalla soglia adattiamo persino la nostra espressione a quella del gruppo […]; nessuno vuole essere diverso da chiunque […]; piuttosto che ascoltare o almeno tacere, ognuno blatera di cose che ignora, e tutti si annoiano, per stolta vanità o per gentilezza”.
Inoltre, giacché “l’orizzonte delle sfide della nostra controversa contemporaneità […] chiede di avere uno sguardo lungo, verso l’utopia e, insieme, un’attitudine concreta a lavorare di precisione e dettaglio nella quotidianità” (Antonio Calabrò), a chi “presta opera intellettuale” (per dirla in burocratese) accade di non poter mai rivestire ruoli e funzioni di chierico, cortigiano, battitore libero, e molti altri ancora comodamente e/o “allo stato puro”. Al contrario, se costu/ei vuole essere fedele al compito che si prefigge, gli/le è sempre richiesto di non venir meno al dovere, costante e paziente, di “leggere ciò che è già stato scritto” (Silvano Petrosino) nel senso più lato possibile, accettando il rischio della “relazione pericolosa” con la realtà senza soccombere all’“inaridimento” (Antonietta Porro) e declinando con coraggio e fantasia l’ineludibile rapporto tra “due piani, quello del pensiero e quello della prassi, quello della cultura e quello della politica” (Ingrid Basso).
È sempre questa, in conclusione, la sfida più impegnativa per coloro che sbrigativamente ricomprendiamo sotto l’ambigua definizione di “intellettuali”: il radicale e integrale “intus legere, un ‘cogliere’ (legere) quanto è ‘dentro’ (intus) alle cose del mondo” (Giovanni Gobber), ma senza “leggere al servizio di un’ideologia [che] significa […] non leggere affatto” (Harold Bloom, 1930-2019). Ovvero, meglio ancora, la sfida di esercitare e condividere tale lettura intelligente (nei pochi o tanti casi fortunati in cui si manifesti davvero) evitando di imitare “i lettori peggiori”, “che si comportano come soldati che saccheggiano: arraffano certe cose di cui possono avere bisogno, insudiciano, e gettano per aria il resto, e bestemmiano su tutto” (Friedrich Nietzsche, 1844-1900).
Forse così gli intellettuali dei nostri giorni potranno dare risposta all’esigente interrogativo di Benjamin Rush (1745-1813), uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776): “When shall we cease to be mere scholars, and become wise philosophers, well-informed citizens, and useful men?”
* docente di Lingua e letteratura inglese, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, campus di Milano
Dodicesimo contributo di una serie di articoli dedicati al ruolo degli intellettuali