Hanno frequentato la scuola di giornalismo dell’Università Cattolica o hanno incarichi di docenza e sono in prima linea, su diverse testate, nel racconto della pandemia da Coronavirus. Ma testimoniano tutti insieme che i media, soprattutto online, restano ancora vitali. Le voci dei nostri reporter in una serie di articoli
«Il mio lavoro non è cambiato più di tanto perché sono abituata a un lavoro a distanza. Lavoro a Milano e sono lontana dalla sede principale del Foglio che è a Roma. Ora lo stiamo facendo tutti ma non riscontriamo grandi problemi o cambiamenti dal punto di vista pratico. Sulla stampa internazionale ci sono tanti articoli che raccontano la vita nuova dei giornalisti a casa ma io non ci vedo molto di nuovo francamente». Paola Peduzzi, ex studente del master in Giornalismo dell’Università Cattolica, è oggi una colonna de Il Foglio. Ogni giorno racconta dalle colonne del giornale fondato da Giuliano Ferrara la notizie di politica estera e di esteri in generale. Anche per questo il suo non è un giornalismo che si consuma le suole delle scarpe.
«Il nostro è un giornale molto più di opinione e di racconto, quindi è sempre stato abituato ad un approccio più sedentario» racconta. «Questo non vuol dire che non sia mai uscita, però essendo la nostra più una testata di news analysis e approfondimento, il fatto di stare in casa e studiare non è molto diverso da quello che facevamo prima. Buona parte del nostro lavoro è leggere, analizzare e capire per poi cercare di spiegare. Dal punto di vista contenutistico è necessario approfondire molto molto più di prima perché ci sono di mezzo molti numeri, trend e situazioni diverse. Quei numeri rappresentano persone quindi è ancora più responsabilizzante comprenderli bene. In generale mi sembra ci sia un ritorno alle cosiddette informazioni sicure, alle testate con un marchio riconoscibile».
C’è stata una riscoperta del giornalismo di qualità? «Si la qualità e la competenza sono un trend generale. Si ha voglia di concretezza, numeri chiari, regole precise e magari uno sguardo al futuro».
In che senso sguardo al futuro? «Quasi mezzo mondo è entrato in lockdown e noi italiani, essendoci arrivati prima, guardiamo come un deja vu racconti che ci arrivano dalle altre parti del mondo: il collasso dei sistemi sanitari, la guerra delle mascherine e tutto il resto. La mia esigenza sia nei confronti della politica sia nei confronti dell’informazione è di trovare una road map per ripartire e uscire, con la consapevolezza che dovremo convivere con il virus. Continuo a cercare documenti, paper e analisi che parlano delle cosiddette exit strategies. Proviamo a individuarle e raccontarle e trovare qualche ispirazione magari anche per il nostro governo».
Ha trovato allora delle fonti di ispirazione valide? «Abbiamo trovato dei paper, per lo più internazionali, che stiamo raccontando in questi giorni sul Foglio. Ne abbiamo pubblicato uno dell’American Enterprise Institute che è un think tank americano. Poi ci sono altri documenti e altri studi. Nella rubrica che ho settimanalmente sull’Europa che si chiama “EU Porn”, nome un po’ sfacciato ma dai contenuti molto seri, vorrei raccontare tutte le altre exit strategy contro il virus che i Paesi stanno cercando di mettere a punto. Ce n’è un altro molto interessante che viene dall’Inghilterra fatto da due studiosi, uno dei quali era il consigliere di Boris Johnson quando era sindaco di Londra, e somiglia molto a quello dell’American Enterprise Institute. Ha un elemento comunicativo in più che è quello della metafora del semaforo, ovvero il passaggio alle varie fasi di convivenza con il virus. Ora siamo in rosso, poi ci sarà una fase di giallo in cui bisognerà comunque verificare che “non stiano passando le macchine” e nel caso sia sicuro tornare alla normalità si potrà passare al verde. Rimanendo comunque prudenti»
Non si può tenere il piede pigiato sull’acceleratore neanche con il verde… «Assolutamente no. I virologi sono molto più tranchant da questo punto di vista e dicono che fino a quando non ci sarà il vaccino non saremo del tutto al sicuro. Ovviamente la politica e l’economia hanno altre esigenze».
Ognuno ha il suo mestiere e i suoi interessi… «Esatto, la mia speranza è che le pressioni politiche ed economiche che ci sono, e sono giustificatissime, non abbiano il sopravvento sulla sicurezza, altrimenti si andrebbe a vanificare tutti i sacrifici fatti fino a ora».
Tenendo l’occhio fuori dall’Italia, cosa pensa del giornalismo internazionale in questo momento? Si può fare un raffronto con quello italiano? «Non faccio quasi mai paragoni tra il giornalismo estero e il nostro. Credo che i grandi brand del giornalismo internazionale stiano continuando ad avere un approccio molto rigoroso e serio alla faccenda. Poi ci sono delle eccezioni come Fox News, la tv più vista dagli americani, che ha fatto una copertura in linea con l’improvvisazione dell’amministrazione Trump. Fox News è un esempio di un colosso che in realtà non ha fatto un’informazione rigorosa ma un po’ partigiana. Ci sono anche esempi in senso inverso. In Inghilterra il Daily Telegraph, da sempre considerato vicino ai conservatori, è stato per diversi giorni molto critico nei confronti del governo. In questo momento però, con il Premier in terapia intensiva, c’è soltanto solidarietà. C’è stato un risveglio della partigianeria anche sui giornali italiani. Poi chiaramente se uno si mettesse a fare la rassegna stampa noterebbe come le varie ideologie siano dure a morire, però c’è la tendenza generale a essere rigorosi».
C’è quindi una linea condivisa di rigore e puntualità? «Si tenta. Diciamo che mentre prima sembrava ci fosse disinteresse verso il rigore, ora invece mi sembra invece che più si è precisi, più tutti si sentono contenti».
C’è stata una rinascita dal punto di vista del quotidiano digitale? «L’informazione già prima passava moltissimo su apparecchi elettronici e in questo momento ancora di più. Questo avrà ricadute sul cartaceo e in altri Paesi si vedono già le prime conseguenze. Evening Standard, giornale molto popolare a Londra il cui direttore è George Osborne, ex cancelliere dello scacchiere di David Cameron, ha dovuto fare dei tagli. Ci sarà un contraccolpo in questo settore. Infatti ci sono molti appelli anche sui social di giornali e giornalisti che chiedono di comprare comunque le copie cartacee».
Farebbe anche lei questo appello? «Io sono amante della carta ma non credo ci siano contraddizioni tra le due cose. Ho la fortuna di lavorare in un giornale che di fatto nasce come approfondimento già 20 anni fa e per noi il long read è la nostra offerta quotidiana. Dal punto di vista contenutistico non vedo una grande differenza, anche se il linguaggio digitale offre molte opportunità di scrittura grazie al linguaggio multimediale».
Rimanendo sul digitale. Noi siamo nell’epoca del tutto e subito ma in questo momento di emergenza, anche il digitale non dovrebbe seguire una linea un po’ più lenta di informazione? «Io sono per la lentezza dell’informazione sempre perché la lentezza è rigore, e la fretta è uno dei flagelli dell’informazione online e del giornalismo di qualità. Se devo fare tutto in fretta è chiaro che controllerò di meno. Serve invece il tempo di verificare e di capire altrimenti si scrivono cose inaccettabili, soprattutto in questo momento in cui il servizio pubblico dell’informazione è molto più sentito rispetto ad altre fasi».