di Massimo Scaglioni *
“Ecco spiegato perché nessuno ama gli scienziati: quando abbiamo una malattia da curare, dove sono? In laboratorio e sui libri, e intanto la nonna muore. Ma se invece non c’è un problema sono ovunque a spargere paure”. La risposta del compagno vicesegretario del Partito Comunista bielorusso alla fisica Ulana Khomyuk (un personaggio di fantasia, che incarna, nelle fattezze di Emily Watson, le decine di studiosi che si sono scontrati con Chernobyl nei giorni della grande paura) inquadra bene uno dei temi che la miniserie di HBO e Sky tocca con acume: i rapporti fra scienza, politica e società, che diventano drammaticamente urgenti quando un’enorme quantità di radioattività sta per riversarsi, ora dopo ora, sull’intera Ucraina, la Russia e l’Europa orientale e occidentale.
È questo filone tematico - tutt’oggi scottante, in tempi in cui la scienza è messa in dubbio da assurde pseudo-verità e fake news d’ogni tipo fluttuanti per la Rete - una delle ragioni del buon successo di una serie come “Chernobyl”, cronistoria in cinque episodi del più grave incidente nucleare verificatosi nella storia dell’umanità. Certamente lo scontro fra eroi coraggiosi - uomini di scienza, certamente, ma anche persone comuni (pompieri, infermieri, soldati, minatori…) chiamate a compiere atti di smisurato sacrificio per il bene comune - e burocrati di un sistema politico più in disfacimento che efficacemente oppressivo, è uno dei leitmotiv che hanno contribuito a far apprezzare il racconto che ci riporta a trent’anni fa, al 26 aprile del 1986, all’1 e 23, e alle ore immediatamente successive.
Certo, di successo possiamo parlare, sotto diversi punti di vista. La serie - commissionata e finanziata al di qua e al di là dell’oceano Atlantico dalla cable HBO e dalla pay Sky Europe - ha collezionato diversi primati. Al momento risulta il prodotto seriale con la media più alta nei voti degli spettatori (9,7) su IMDB (imdb.com), davanti a Breaking Bad o Game of Thrones. Distribuita quasi simultaneamente in moltissimi Paesi, dagli Usa alla Gran Bretagna, dal Cile al Sudafrica e all’Italia, ha dato ottima prova come prodotto “premium”, un contenuto tipicamente “a pagamento” capace di generare visibilità, hype e buoni ascolti.
Negli Stati Uniti, la messa in onda su HBO è partita lentamente (poco più di 700mila spettatori), per poi crescere fino a oltre due milioni di spettatori fra “live” e “on-demand”. Anche in Italia la curva è tutta in crescita: poco più di mezzo milione di spettatori per il primo episodio “live”, e poi un ascolto consolidato medio (nei sette giorni) di oltre un milione e duecentomila spettatori. Ottimi numeri per una serie pay, non troppo lontani da quelli raccolti da Gomorra e Il Trono di Spade.
Sul successo di una serie come Chernobyl conta molto il passaparola, che ormai funziona soprattutto attraverso i social media. Nei mesi di giugno e luglio, fra la partenza del primo episodio e la conclusione, in onda l’8 del mese, oltre 50 mila interazioni “social” hanno riguardato “Chernobyl”, con un’accensione particolare su Twitter (dati elaborati attraverso Nielsen Social Content Ratings).
Insomma, questo tuffo indietro nella spaventosa primavera dell’86 ha generato grande interesse e, potremmo dire, “engagement”, coinvolgimento. Come si spiega il buon successo di una narrazione tutt’altro che distensiva, considerate le scelte stilistiche che - dalle modalità angoscianti del racconto allo stile visivo plumbeo, che ci riporta a un “sottosopra” tragicamente reale - contribuiscono a ricreare sotto i nostri occhi uno dei disastri ambientali e umani più gravi degli ultimi decenni?
Molti filoni del caso “Chernobyl” così come ci sono presentati risuonano dunque ancora attuali per il pubblico odierno. C’è il citato dissidio fra scienza e politica, sviluppato in modo complesso e senza manicheismi: nella serie scienziati e politici compaiono fra entrambi gli schieramenti, degli eroi e degli ignavi. Fra i primi, certamente le due figure ispirate a persone reali: Valery Legasov (magistralmente interpretato da Jared Harris), direttore del Kurchatov Intitute che risulta decisivo per bloccare la radioattività in uscita dal Reattore 4; e Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), assegnato dal Cremlino di Gorbacev a guidare la commissione governativa sul disastro.
C’è poi senz’altro, per chi ha vissuto quei giorni e per chi, più giovane, ne ha letto sui libri di storia, il desiderio del ricordo, e soprattutto di capirci qualcosa di più: tutto il lavoro di minimizzazione e di disinformatia dell’apparato sovietico in putrefazione hanno reso quel caso molto più complesso e misterioso, con pagine ancora oscure (per esempio in relazione alle reali conseguenze, ai danni, ai morti).
Il lavoro della serie creata e scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck funziona perfettamente in questo senso: è moderatamente didascalica, mediando fra verità fattuali, ricostruzioni ed esigenze drammaturgiche, e capace di svelare, in modo quasi documentaristico, il marcio e l’inettitudine dietro le verità ufficiali. Chernobyl è un nuovo esempio della potenza della grande serialità televisiva, in termini di narrazione e di costruzione o, in questo caso, di “ricostruzione” di un immaginario tanto orripilante quanto vero. Un buon modo per tornare a ricordare le meschinità e gli eroismi di quei giorni, e domandarci “il costo delle nostre bugie”.
* docente di Storia dei media alla facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere e direttore del master “Fare TV. Gestione Sviluppo Comunicazione”