“Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali?” è il titolo del convegno promosso dal centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, che si terrà mercoledì 30 ottobre in cripta aula Magna (largo Gemelli 1, Milano) a partire dalle 9.30. In questa occasione il professor Giuseppe Lupo ha lanciato un dibattito a cui hanno aderito alcuni docenti della Cattolica. Pubblichiamo l’articolo della professoressa Antonietta Porro
di Antonietta Porro *
Nel suo intervento su CattolicaNews (16 ottobre 2019) Giuseppe Lupo stigmatizza lucidamente la crisi del rapporto fra intellettuali e potere nel nostro tempo parlando di «pericoloso cortocircuito fra chi manovra le parole e chi detiene le chiavi della città». È mia convinzione che a generare il “corto” sia una relazione sbagliata, frutto di una progressiva confusione di ruoli. Se intellettuale è una persona di solida cultura, in grado di leggere la realtà con lucidità e disincanto e di mettere a parte della propria interpretazione (con la quale identifico ciò che Lupo chiama “idee”) i contemporanei, è inevitabile che egli entri in relazione con le diverse forme di potere, politico, economico-sociale, della comunicazione: può accadere infatti, come accade oggi con frequenza, che il potere cerchi negli intellettuali una legittimazione ideale delle proprie scelte e che gli intellettuali fondino il proprio prestigio sul riconoscimento pubblico di questo ruolo. Da una simile “relazione pericolosa” deriva un sostanziale inaridimento della funzione degli intellettuali, coincidente con la rinuncia all’elaborazione di visioni di respiro a favore di riflessioni connesse con l’occasione e dotate di carattere effimero. In altri termini, quella dell’intellettuale si trasforma fatalmente da funzione in mestiere.
Già nella Grecia antica poeti come Pindaro forniscono ai potenti, attraverso l’encomio poetico, la giustificazione ideale delle loro scelte contingenti e promettono la gloria imperitura, chiedendo in cambio, a volte senza mezzi termini, il sostegno economico del mecenate. La qualità della poesia non ne risulta peraltro mortificata, né le più alte riflessioni sull’uomo e sul mondo ne vengono inficiate, ma certo non si può chiedere un giudizio veritiero e disincantato dell’artista sul suo patrono, anche se a Pindaro non manca la capacità di esprimere critiche, dove ritiene di poterlo fare. La funzione di celebrazione del potere costituito e addirittura della persona del sovrano si radicalizza nell’Alessandria tolemaica del III sec. a.C., dove poeti come Callimaco o Teocrito pongono talora la loro penna al servizio del re e ottengono in cambio protezione e sostentamento, ciò che garantisce loro di continuare ad esercitare il proprio mestiere di studiosi e di artisti. La libertà di giudizio non abita qui.
L’aspirazione a rivestire il ruolo di educatore di sovrani illuminati induce, d’altro canto, Platone – come egli stesso ci racconta nella Lettera VII – a intraprendere la funzione di consigliere dei potenti di Siracusa, in particolare di Dionisio II, ma la sua esperienza si rivela alla fine fallimentare: i suoi interlocutori non sono disposti ad ascoltarlo e Platone, diversamente da altri, non sembra incline al compromesso: «Quando un uomo è ammalato e segue un regime di vita che non giova alla sua salute, per prima cosa bisogna consigliarlo di cambiar vita; e se dà ascolto, si possono aggiungere altri suggerimenti. […] Lo stesso vale per una città. […] Solo a queste condizioni io potrei darvi dei consigli» (330 c – 331 d; trad. Ciani). Platone è discepolo di uno dei maggiori intellettuali dell’Atene del V sec. a.C., la cui figura storica non è a tutt’oggi univocamente interpretata. Nella rappresentazione che ce ne dà Platone si impongono tratti peculiari del modo il cui il suo maestro Socrate interpretò la propria funzione di intellettuale al servizio della città. In particolare dall’Apologia, il discorso di difesa dalle accuse dei concittadini, si ricavano alcune precise indicazioni: il suo ideale di vita si traduce in una condizione di perenne ricerca («una vita senza ricerca non è per l’uomo degna di essere vissuta», 38a); il suo compito di intellettuale nei confronti della città – della quale si sente parte integrante - è quello di pungolarla continuamente, come un tafano stuzzica un cavallo di razza impigrito dalla sua mole (30e), a curarsi «dell’anima, perché sia la migliore possibile» (30b); e tutto ciò senza chiedere compensi. Il comportamento di Socrate incappa tuttavia in una vistosa controindicazione: i suoi concittadini lo mettono a morte.
Non v’è dunque speranza - oggi come ieri - per una figura di intellettuale che aspiri ad essere libero da compromessi e cedimenti nei confronti dei poteri? Socrate non vinse la sua personale battaglia nell’Atene del V sec., ma la civiltà occidentale si misura tuttora, più o meno consapevolmente, con le sue dottrine e i suoi insegnamenti. Forse si tratta solo di non accontentarsi del ruolo di sponsorizzazione del potere – in qualunque forma si manifesti –, di concepirsi in perenne ricerca, rinunziando alle gratificazioni immediate riservate a un intellettuale prêt-à-porter, di avere il coraggio dell’onestà intellettuale, sentendosi “dentro” la città, ma senza far coincidere il successo delle proprie idee con il plauso sociale.
* docente di Lingua e letteratura greca, facoltà di Lettere e filosofia; direttore del Dipartimento di Filologia classica, Papirologia e Linguistica storica, campus di Milano
Terzo contributo di una serie di articoli dedicati al ruolo degli intellettuali