“Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali?” è il titolo del convegno promosso dal centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita” il 30 ottobre a Milano. In questa occasione il professor Giuseppe Lupo ha lanciato un dibattito a cui hanno aderito alcuni docenti della Cattolica. Pubblichiamo l’articolo del professor Gabrio Forti
di Gabrio Forti *
La parola ‘intellettuale’ (prima ancora di chi impersoni la categoria) non gode di buona fama (e di buona stampa). E ciò ben prima dell’odierna “era dell’incompetenza”, per dirla con Tom Nichols. Le ragioni sono molte e note. Tra esse, non v’è dubbio, gli esempi di “cortigianeria” che la storia, antica e recente, ci ha restituito a profusione: la soggezione al Potere, certo, e all’ambigua fascinazione esercitata su certi ‘intellettuali’ di rango dalla forza e dalla violenza di Stato, ma anche a ben precise militanze ideologiche. Non ha aiutato, poi, la pervicace incapacità di scendere dal piedistallo e comunicare, se non con la proverbiale casalinga di Voghera, con un pubblico appena più ampio di quello dei salotti bene o dei convegni accademici.
Forse però, più che della condizione degli intellettuali, sarebbe meglio preoccuparsi, come faceva il Manzoni nella Storia della colonna infame, dell’«effetto» e dell’«intento del lavoro intellettuale», specie nelle materie «più importanti e necessarie all'umanità», tra le quali lo scrittore annoverava le questioni di giustizia.
Proprio per tale preoccupazione il premio Nobel Paul Krugman, «dopo l’anno così sconfortante» che aveva visto l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, raccomandava agli accademici di professione di vincere la tentazione di «prendersela comoda e non fare la fatica di tradurre astrazioni in cose più concrete, che la gente possa comprendere»: «la cosa peggiore di tutte è quando si sale in cattedra, quando si sostiene qualcosa facendo leva sulla propria autorevolezza».
Sottolineava, in particolare, l’importanza di «individualizzare, focalizzare l’attenzione sulle storie di singole persone, perché questo «è il modo in cui si relaziona la maggior parte delle persone. Bisogna andare sul personale, ed è una cosa che anche gli intellettuali pubblici devono trovare il modo di fare». Ciò anche perché «le persone hanno poco tempo e un intervallo di attenzione limitato e si distraggono facilmente se partite per la tangente»: «dobbiamo impegnarci a dire la verità e nient’altro che la verità, ma non necessariamente tutta la verità. A volte è una distrazione».
Il problema del «poco tempo», della «distrazione», resta il terreno su cui oggi, a parere di chi scrive, il lavoro intellettuale è chiamato a ingaggiare la battaglia della vita (per sé e per tutti noi), il cui esito dipenderà dalla sua capacità di esercitare con l’esempio quella che Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli, ha chiamato la «propedeutica prima alla spiritualità»: il «non reagire subito a uno stimolo, ma padroneggiare gli istinti che inibiscono e precludono», l’«imparare a vedere, abituare l'occhio alla pacatezza, alla pazienza, al lasciar venire-a-sé le cose; rimandare il giudizio, imparare a circoscrivere e abbracciare il caso particolare da tutti i lati».
L’autonomia dal flusso turbinoso dei tweet e dei click, dei like, l’esercizio assiduo di pacatezza e pazienza, è la sfida di oggi; soprattutto per le università, chiamate a difendere la cittadella assediata della ricerca pura, disinteressata, resistente alle sirene della spendibilità immediata per il mercato o le professioni, facendo esercizio di una giusta misura di distacco dai vortici dell’effimero, e offrendo protezione dalla pressione degli «istinti» a tutti coloro che trovino accoglienza nel suo recinto di pensiero.
Ma, al contempo, tenute a sviluppare e manifestare quella piena consapevolezza per i problemi dell’oggi senza la quale quel distacco perderebbe autorevolezza, oltre a porsi in contraddizione con l’idea di «una «società aperta in tantissimi sensi», ossia «più benevola verso gli sfortunati, che conforti gli afflitti e affligga gli agiati, invece del contrario». Una società, aggiungerei a questi auspici di Krugman, che consideri il lavoro intellettuale aperto a tutti i «capaci e meritevoli», come recita la nostra Costituzione, e in quanto tale portatore con fierezza della pretesa che tutti debbano prestarvi l’attenzione degna dell’impegno richiesto per conquistarsene l’esercizio.
Questa è la via obbligata per «continuare a promuovere la vita della mente» per condurre a «un possibile miglioramento della vita in generale», come raccomandava conclusivamente Krugman, visto che «per tutti noi la giustificazione ultima di quello che facciamo è fare qualcosa che cambierà il mondo, che migliorerà le cose».
* docente di Diritto Penale, facoltà di Giurisprudenza, direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale, campus di Milano
Settimo contributo di una serie di articoli dedicati al ruolo degli intellettuali