«In Ciad il Covid-19 è visto come una malattia in più tra tante che hanno anche una mortalità più alta, come la malaria soprattutto nelle zone più lontane dalle città dove le strutture sanitarie non sono così attrezzate». Sono parole che fanno riflettere quelle di Silvia Fregoso, coordinatrice del Paese Ciad per la Fondazione ACRA e alumna dell’Università Cattolica, intervenuta al primo dei quattro incontri online promossi dal Centro di ateneo per la Solidarietà internazionale (CeSI), intitolato “Sfide e prospettive della cooperazione ai tempi del Covid-19”.
Non che l’emergenza non si sia sentita in Africa. Il Ciad - ha spiegato Silvia Fregoso, introdotta dal direttore del CeSI, Marco Caselli, ha avuto i primi casi a metà marzo e ha messo subito in pratica disposizioni restrittive con la chiusura di luoghi di culto e scuole e con l’osservanza delle restrizioni come il darsi la mano, gesto molto diffuso nel Paese. I casi sono stati 800 e arrivati prevalentemente con i viaggi aerei.
«La cosa che fa più paura in Ciad adesso è l’impatto socio-economico, più che non sanitario, causato dall’emergenza: le chiusure, gli spostamenti ancora bloccati, il coprifuoco a partire dalle 20 alle 5 del mattino - ha continuato la cooperante -. La chiusura delle scuole ha ripercussioni sul sistema scolastico che già fatica a garantire la presenza dei bambini in classe perché nella stagione delle piogge i genitori li mandano a lavorare nei campi. Esiste, inoltre, il timore che aumentino le violenze di genere e i matrimoni precoci come conseguenza della mancata possibilità di trovare un lavoro».
Le difficoltà del Paese in condizioni normali sono già molte. Gli ospedali non sono in grado di assorbire tutte le necessità e la viabilità, complicata dalle zone desertiche del nord e dalla quantità di fiumi al sud, rende faticoso raggiungere anche i servizi come scuole e ospedali. Oltre a rispondere ai bisogni primari, in tempo di Covid è necessario far fronte all’arrivo delle piogge e delle inondazioni che scoperchiano case e rendono inagibili le strade.
ACRA porta avanti progetti in particolare al centro e al sud e questo richiede ora un adattamento delle attività.
Sollecitata da Marco Caselli, Silvia Fregoso ha spiegato il lavoro di sensibilizzazione che durante la crisi del Covid è stato svolto con i maestri a scuola, nelle famiglie per spiegare cosa stava succedendo nel mondo e quali misure andavano adottate, con i bambini trasmettendo le lezioni di ripasso attraverso le radio comunitarie.
L’attenzione poi si è sposata sulla riprogrammazione di tutte le attività, la revisione delle priorità e degli obiettivi da raggiungere nei prossimi mesi, valutando le singole azioni insieme alle autorità locali.
Ogni progetto ha la sua peculiarità, se è lungo lo si può riadattare per raggiungere gli obiettivi prefissati, se breve, occorre cambiare le attività in base alle esigenze del momento. In tutto questo è importante allocare correttamente e secondo un piano preciso le risorse che arrivano dai donatori.
Secondo Silvia Fregoso «la Fondazione risentirà negativamente della crisi su due fronti. Il primo è dato dal fatto che si sta dando più attenzione all’emergenza che allo sviluppo e per ACRA, che si occupa di piani di sviluppo a medio e lungo termine, questo rappresenta un problema. L’altra difficoltà riguarda il lavoro del cooperante che cambierà per almeno un anno nella misura in cui non sarà possibile rientrare nel proprio Paese d’origine per molto tempo e questo condizionerà molte persone nella decisione di lavorare nella cooperazione. Di qui la difficoltà nella gestione dei progetti».
Se si considera che l’Italia negli ultimi anni non ha destinato molti fondi per la cooperazione e che oggi ci si aspetta un’ulteriore riduzione occorrerà rivedere tutta la progettazione e il riorientamento delle risorse all’emergenza con il rischio però di non poter sviluppare gli interventi a lungo termine che invece aumenterebbero le capacità di risposta anche a eventi di questo genere.
Non poteva mancare una domanda personale sul vissuto di questi lunghi mesi lontano da casa. Ma Silvia è sorridente e positiva. «Sono in Ciad da gennaio e avrei dovuto rientrare in Italia per un felice evento familiare ma sono ancora qui e tornerò ad agosto. Quello che mi manca di più sono la famiglia e gli amici. Nella capitale non mi manca nulla, ma le relazioni, nonostante se ne possano costruire di profonde anche qui. E poi mi manca l’aspetto culturale, il cinema, il teatro perché in questo lavoro vita privata e professionale tendono a sovrapporsi».
La testimonianza di Silvia Fregoso ha dato il via a quattro “CeSI Talks” (i prossimi saranno il 2 luglio sul tema della comunicazione in emergenza, il 9 luglio sul multilateralismo e la geopolitica del virus, e il 16 luglio sulla sicurezza e la salute) che, come ha ricordato Marco Caselli «sono un modo alternativo per vivere lo spirito che ogni estate animava i racconti e le testimonianze di studenti dell’ateneo che attraverso il Charity Program facevano esperienze di volontariato in Paesi lontani e in realtà impegnate sul campo per lo sviluppo».