di Damiano Palano *

Nel corso degli ultimi decenni l’idea che i regimi democratici occidentali potessero essere colpiti da una crisi letale non ha cessato di offrire lo scenario per trame fantapolitiche, ma è stata considerata assai poco realistica dalla gran parte del dibattito politologico. Dopo l’euforia degli anni Novanta, non sono certo mancate diagnosi che hanno intravisto in alcuni aspetti dei sistemi politici occidentali – per esempio, nel calo della partecipazione popolare, nella scarsa fiducia riposta nella classe politica, nel ridimensionamento del welfare State – i segnali di un «disagio» o addirittura di una transizione verso una forma inedita di «postdemocrazia». 

Ma il consolidamento delle democrazie «mature» veniva considerato come un dato acquisito. Dopo l’esplosione della crisi finanziaria globale, le diagnosi hanno invece iniziato ad assumere una connotazione più pessimista. Ma solo dal 2016, dopo il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump, la percezione di molti osservatori si è davvero modificata. A partire da quel momento si è infatti iniziato a prendere sul serio l’ipotesi che alcuni processi possano alterare i tratti distintivi di un assetto liberal-democratico, che si stia delineando un «deconsolidamento» delle democrazie occidentali, o che la «rivolta populista contro l’economia mondiale» possa addirittura preludere al tramonto del liberalismo. 

A livello globale, i segnali di una significativa «recessione democratica» sono piuttosto evidenti. Innanzitutto, si è esaurita da ormai più di un decennio la residua spinta propulsiva della «terza ondata» di democratizzazione, ossia della marcia di espansione della democrazia liberale nel mondo cominciata nel 1974 con la caduta del regime autoritario in Portogallo e poi proseguita alla fine degli anni Ottanta con la dissoluzione dei regimi del socialismo reale. 

Ulteriori segnali di una significativa «recessione democratica» giungono però anche dalle dinamiche interne dei sistemi politici occidentali, e più precisamente nel logoramento di alcune delle garanzie che consentono la competitività tra partiti e il pluralismo informativo. Insieme all’evoluzione della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, gli esempi più significativi di questa tendenza sono offerti da due Stati membri dell’Unione europea come Ungheria e Polonia, che – in virtù di misure ritenute lesive della libertà di espressione e dell’indipendenza della magistratura dal potere politico – sono considerati da molti osservatori come casi di «democrazia illiberale». 

Lo stesso Orbán in diverse occasioni ha d’altronde definito il proprio modello di riferimento come una «democrazia cristiana illiberale», che, contrastando l’indirizzo multiculturalista e cosmopolitico delle élite tecnocratiche dell’Ue, punta a difendere gli interessi e le tradizioni nazionali, sulla base di un vasto sostegno popolare. 

Più in generale, i segnali di una «contro-rivoluzione» anti-liberale possono essere riconosciuti in tutti quei sistemi politici – per esempio in Austria, in Francia, in Germania, in Italia, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti di Trump – che, nel corso degli ultimi anni, sono stati teatro dell’ascesa di formazioni «neo-populiste» portatrici di posizioni anti-immigrazione, anti-globalizzazione e anti-establishment, più o meno connotate in senso nazionalista e nativista. E così, se alla fine degli anni Novanta la formula «democrazia illiberale» identificava regimi «ibridi» nei quali il processo di democratizzazione si era arrestato, oggi viene invece a indicare soprattutto un assetto contrassegnato da una progressiva divaricazione tra democrazia e liberalismo, verso cui potrebbero indirizzarsi in misura crescente anche gli stessi sistemi politici occidentali.

* Coordinatore del Corso di Laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali della facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica. Quello pubblicato è uno stralcio del rapporto 2019 realizzato dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) e intitolato «La fine di un mondo. La deriva dell’ordine liberale»