Continua il dibattito aperto dall’articolo dal titolo “Arrivano i robot”, dedicato a come l’intelligenza artificiale sta cambiando noi e il nostro modo di vivere e di pensare
di Massimo Marassi*
Sono stati necessari parecchi secoli per giungere a comprendere il funzionamento dell’intelligenza naturale. In pochi decenni si è però immaginata la possibilità di replicarla artificialmente e da qui l’IA ha trovato una molteplice serie di applicazioni. Restiamo stupiti constatando l’enorme quantità di dati elaborati dai sistemi artificiali, ma dovremmo cominciare a riflettere non tanto sulla capacità di calcolo, quanto sulle differenze qualitative – tecnologie tattili, di rete, di comunicazione, di immagini, di linguaggio, di strutture virtuali e neurali di elaborazione – che i sistemi intelligenti sono in grado di acquisire e incrementare.
Fino a pochi anni fa si poteva dire che le macchine non erano in grado di vantare le intuizioni, i ragionamenti degli esseri umani, di decidere quale soluzione scegliere tra diverse possibilità. Questi limiti sono proprio ciò che i costruttori di sistemi intelligenti hanno già superato: d’altra parte un sistema artificiale che non abbia consapevolezza di ciò che conosce e fa, sarebbe soltanto un contenitore di informazioni, non certo un sistema intelligente.
In questa prospettiva dobbiamo però anche ammettere che un sistema è intelligente non solo quando deduce, in modo quasi meccanico, conclusioni da premesse date, ma quando è in grado di svolgere processi induttivi a partire dall’esperienza e quindi deve passare dall’archiviazione e dalla classificazione all’interpretazione e alla decisione, cioè può commettere errori. Tutti i sistemi intelligenti e le loro molteplici applicazioni tecnologiche sono strutturati in base ad algoritmi complessi in grado non solo di replicare una funzione, ma anche di verificare gli errori, sviluppando un apprendimento automatico e adattativo.
Non possiamo più prescindere dal sostegno fornito dai sistemi intelligenti, che attraversano molti settori delle attività umane – i luoghi di cura e di assistenza, il lavoro, le forme di produzione industriali, il mercato azionario, il commercio, la robotica, l’intrattenimento e i giochi, la logistica e i trasporti, i servizi, i contesti domestici e quelli legati alla sicurezza –, con una velocità di diffusione ridondante che supera di molto la capacità umana di adattamento al ritmo dell’innovazione e soprattutto con una pervasività mai riscontrata prima, perché globale e profonda.
Le tecnologie sono intenzionalmente prodotte dall’uomo, ma non sempre l’uomo è consapevole che esse agiscono anche sul suo modo di comprendersi e di porsi nel mondo. Non sono meri strumenti d’uso, ma rappresentano l’orizzonte a partire dal quale l’uomo conosce se stesso e interpreta il mondo, tanto che a informazioni velocissime non sempre corrisponde un analogo arricchimento culturale. Si dovrebbe usare la tecnologia per evitare una crisi ecologica planetaria, controllare le conseguenze della biogenetica, superare gli squilibri di un sistema economico globale, correggere le accentuate divisioni tra i popoli. Invece l’uomo, nonostante i sistemi intelligenti a disposizione, si considera esonerato da ogni vincolo tanto da autoescludersi dal mondo in cui vive, con l’inevitabile e irreversibile distruzione del contesto in cui pensa, opera e vive.
Emerge dunque l’immagine di un genere umano così disattento e superficiale da non prevedere le conseguenze delle proprie invenzioni. Soprattutto, la migliore rappresentazione che l’uomo immagina di sé è quella di diventare transumano o postumano, di oltrepassare ogni limite, sia questo imposto da Dio, dalla natura o dalla storia. Potenziare il corpo e il pensiero, come se l’uomo fosse interpretabile soltanto in termini matematici e procedurali, significa pensarlo indipendente dalla materia, dall’organismo, dai gesti, dalle espressioni facciali, dal tono di voce, dalle immagini: tutti segni, è vero, di una fragilità che oggi non sopporta più se stessa e si immagina non essenziale, oltre che del tutto inconfessabile. Tuttavia, almeno per il momento, l’uomo è soltanto un essere mortale costruttore di macchine intelligenti, che sono una possibilità di fatto e di valore, purtroppo a disposizione innanzitutto del potere e del mercato. Al singolo uomo spetta dunque la decisione di ritenersi all’altezza dei modelli e delle applicazioni disponibili o di pensarsi subalterno ai pochi autori di algoritmi e ai poteri economici e politici. Per sciogliere l’alternativa basterebbe considerare che la mente umana è un sistema dinamico, capace di sentire e di soffrire, di comunicare il pensiero nel linguaggio, di condividere i sentimenti con emozioni travolgenti e passioni disparate. Non tutto è calcolabile. Più osserviamo l’uomo e più appare indeterminabile un’eccedenza confusa di dolore e piacere, tristezza e gioia, sofferenza e felicità.
Non possiamo dire oggi che cosa i sistemi intelligenti arriveranno a consentirci di fare. Però possiamo sentire che cosa desideriamo da essi e decidere se restare uomini o pensarci sciolti dalla materia, dalla società, dalla storia, in definitiva irresponsabili rispetto alla fine di un mondo, quello che ci ha accolti tra i viventi. I sistemi intelligenti non eseguono soltanto operazioni, più a fondo e severamente pongono in questione l’uomo, la sua illusione di dominarli e il desiderio di dimenticare il tempo che passa. E però quando l’uomo si allontana da se stesso, e si abbandona ad altro da sé, anche il mondo è esposto al limite. Non so con certezza se esista una dimensione dell’uomo minimale, quella che resta inaggirabile, quando è tolta ogni aggiunta successiva alla nudità con cui siamo affidati al mondo.
Comunque, in questa dimensione primitiva e di breve durata, biologica, sociale, storica, dobbiamo ammetterlo, eravamo in debito verso gli altri, verso tutti. Pensiamoci così nei confronti dell’IA: non signori arroganti, ma servi dialetticamente vincenti. Il vincolo ormai diffuso dell’organico con l’artificiale non esonera, non solleva la vita dalla responsabilità. L’IA e i suoi sistemi intelligenti non rappresentano una minaccia, ma sono un’occasione straordinaria per ricondurre l’uomo a se stesso, per riportare la mente al mistero da cui proviene. In questa sempre nuova relazione non vedo pericoli di sorta se non la possibilità, che sarebbe affermata per l’ennesima volta nella storia conosciuta, che l’uomo esibisca la sua baldanzosa e sbadata stoltezza.
* Docente di Filosofia teoretica nella facoltà di Lettere e filosofia
Ottavo articolo di una serie dedicata a come l’intelligenza artificiale ci sta cambiando